Controllo di gestione. Serie articoli su nuovo comma, che si è aggiunto in coda all’art. 2086 del Codice Civile dal 16 marzo 2019

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Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (14)

IL MAGAZZINO, MINA VAGANTE FUORI DAL RADAR CONTABILE

Il terzo ed ultimo suggerimento MINIMO, per chi vuole adeguare il suo assetto organizzativo impiegando poco denaro e poco tempo, consiste nell’istituire la contabilità di magazzino.

Rispetto ai due suggerimenti precedenti, mettere sotto controllo il magazzino è più complicato e costoso.

In cambio, però, il controllo del magazzino non serve solo per rilevare più tempestivamente l’eventuale crisi dell’impresa, ma quasi sempre porta anche immediati benefici in termini di liquidità: viene immobilizzato meno capitale – visto che di per sé le rimanenze non fruttano alcunchè ed anzi possono venire danneggiate, venire rubate o diventare obsolete. In periodi di deflazione, possono anche perdere di valore, pur rimanendo tecnicamente utili.

Dal punto di vista del controllo di gestione.

Dal punto di vista del controllo di gestione, occorre richiamare il fatto che il sistema contabile utilizzato in Italia per redigere il Conto Economico (sistema che viene detto a “costi ricavi e rimanenze“) non permette neppure di conoscere il risultato netto che è stato raggiunto da inizio anno.

Nei bilanci di verifica che si stampano in corso d’anno, infatti, manca un dato fondamentale: le vere rimanenze di magazzino.

Chi non ha istituito la contabilità di magazzino, convenzionalmente inserisce nei bilanci di verifica le giacenze al 31 dicembre precedente – quando i pezzi presenti in magazzino erano stati contati fisicamente e poi “prezzati” con una serie di calcoli altrettanto scomodi.

Nel frattempo, però, le rimanenze possono essersi modificate anche significativamente, rispetto al 31 dicembre precedente.

Questa variazione impatta direttamente sul risultato d’esercizio, ma nel bilancio di verifica non si vede. La si vedrà il 31 dicembre prossimo venturo – quando sarà tardi per intervenire. O peggio, la si vedrà a tra febbraio e marzo dell’anno dopo, quando il bilancio si avvicinerà ad essere definitivo.

E dunque, il nuovo articolo 2086 del Codice Civile richiede un assetto organizzativo amministrativo e contabile che rilevi tempestivamente l’eventuale crisi d’impresa.

Chi conosce i costi fissi e variabili della propria impresa riesce addirittura a fare previsioni future, anche se di breve periodo. [Chi volesse fare previsioni più a lungo termine e più affidabili, dovrebbe istituire un vero e proprio budget mensile dei costi e dei ricavi, di cui non parlo perché fa parte delle modifiche utili ma complesse].

Chi invece si limita alla contabilità tradizionale, a “costi ricavi e rimanenze”, non riesce neppure a sapere con precisione cosa È GIÀ SUCCESSO dall’inizio dell’anno!

È chiaro che in questo caso siamo molto lontani dal rilevare tempestivamente l’eventuale crisi.

Dal punto di vista del risparmio finanziario

Come privati cittadini, siamo più sereni se il serbatoio dell’auto è pieno.

Gli imprenditori hanno gli stessi motivi di prudenza del privato cittadino – per mantenere un magazzino sufficientemente elevato da garantire la produzione e le vendite anche in caso di temporanee interruzioni degli approvvigionamenti o picchi di richieste da parte dei clienti.

L’imprenditore, però, usa capitali in buona parte di altri (in primis banche e fornitori) e su questi finanziamenti deve normalmente pagare un costo, esplicito o occulto che sia.

Ecco allora che, se l’imprenditore impara a sopravvivere con meno scorte in magazzino, può risparmiare più di quanto non sembri.

La grande distribuzione “batte” sul prezzo i piccoli negozi proprio grazie ad un peso del magazzino enormemente più basso.

Gli ipermercati ricevono camionate di merce ogni giorno, ma poi la vendono nel giro di ore o al massimo di giorni. Per mantenere l’assortimento, i piccoli negozi devono tenere in magazzino l’equivalente magari di un mese di vendite. Spesso, gli ipermercati riescono a tramutare la merce in denaro molti giorni prima di quando la pagheranno al fornitore. In questi casi, più l’ipermercato vende, più si crea una disponibilità finanziaria – temporanea ma che si rinnova costantemente e quindi frutta un interesse. Per il piccolo negozio, invece, è il contrario: per aumentare le vendite deve “congelare” nel magazzino quantità crescenti di denaro.

Nel campo della produzione di beni, i Giapponesi hanno insegnato al resto del mondo i principi e i vantaggi della “lean production“, che è un concetto ricco di sfaccettature, ma che nella sostanza consiste nell’organizzare la logistica come un orologio svizzero.

Studiando i problemi, si può arrivare quasi ad eliminare gli imprevisti e anomalie. A quel punto si può (quasi) eliminare il magazzino. Nelle imprese di produzione più perfezionate, i fornitori entrano in stabilimento e portano i loro prodotti direttamente a fianco della linea di produzione, dove saranno utilizzati in poche ore.

Quando i magazzini erano enormi e le merci potevano viaggiare più lentamente, la ferrovia era un sistema di trasporto valido.

Con magazzini più piccoli, dove le merci ruotano più rapidamente, è aumentato il trasporto su autotreni, che è più costoso ma più rapido. I risparmi sul magazzino giustificano il maggior costo di trasporto.

Ai tempi del crollo del ponte Morandi, abbiamo tutti sentito le statistiche sull’aumento di peso che sopportano le autostrade. I grandi magazzini di una volta si sono in parte trasferiti sui magazzini mobili costituiti dai camion.

Far dimagrire il magazzino porta a tali risparmi, che diventa conveniente addirittura utilizzare i furgoni. Una casa automobilistica asiatica che venda in Europa, per esempio, un tempo avrebbe istituito uno o più magazzini per i pezzi di ricambio in ogni paese europeo. Oggi costruisce, per esempio, un centro super-efficiente a Rotterdam e poi fa viaggiare i pezzi in aereo o su camion. I risparmi sono tali, che ogni tanto può permettersi di far viaggiare tutta la notte un furgone con un pezzo solo, per attraversare l’Europa e rimediare ad un’emergenza.

Come si realizza in pratica

Il codice a barre (ovviamente abbinato a programmi informatici) è stato lo strumento di maggior rilevanza, per permettere di tenere sotto controllo il magazzino.

Qualche decina di anni fa era uno strumento molto costoso, che potevano permettersi in pochi. Oggi è diventato una “commodity“, ovvero un bene che si vende a poco più del costo.

La compartimentalizzazione fisica del/dei magazzini può sembrare un tema accessorio, ma non lo è. Senza di essa, in caso di fretta (e oggi si è SEMPRE di fretta) si pesca dal magazzino rinviando a dopo la contabilizzazione. Che poi non avviene.

Le aziende più grandi hanno già integrato la gestione del magazzino con l’attività amministrativa. Per loro, la fattura elettronica è stata un problema relativo, perché già imponevano ai loro fornitori fatturazioni informatiche, che permettessero di gestire in automatico i carichi di magazzino, oltre che le operazioni della contabilità generale.

Ovviamente, tutto ciò vale per chi è costretto a dover “far girare” molti beni fisici.

Una crescente quota di settori economici tratta beni immateriali o servizi.

Per questi, istituire una contabilità di magazzino non porta risparmi e serve anche relativamente a poco, per rilevare tempestivamente la crisi.

E’ in preparazione un video, dove parlo di alcuni di questi argomenti. Sarà pubblicato sul mio sito. Si intitolerà “Magazzino e contabilità”.

Questo articolo conclude questa serie sulle misure minime per rilevare tempestivamente l’eventuale crisi d’impresa.

Grazie dell’attenzione.

Torino, 5 aprile 2019.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (13)

LE PREVISIONI FINANZIARIE

Dopo la revisione del piano dei conti, la seconda iniziativa che l’imprenditore può prendere, per rilevare tempestivamente la crisi d’impresa (e per DIMOSTRARE di averlo fatto), è di costruire e tenere aggiornato un prospetto con le previsioni finanziarie.

Commercialisti e consulenti fiscali ragionano sulla base del bilancio, ma in realtà il presupposto legale del fallimento non è il patrimonio netto negativo, bensì l’insolvenza, ovvero l’incapacità di adempiere alle obbligazioni in modo “normale” (senza svendere i beni o barattarli).

Patrimonio netto e capacità di adempiere sono concetti collegati, ma non coincidono.

Il patrimonio netto negativo indica il fatto che (ai valori di bilancio) l’impresa NON SARÀ IN GRADO di soddisfare tutti i creditori.

Il mancato pagamento, però, potrebbe avvenire in un futuro non immediato. Tutto dipende dal grado di liquidità dell’attivo e del passivo. Se l’attivo è liquido e il passivo è a lungo termine, l’insolvenza potrebbe essere lontana di mesi o addirittura di anni (nel qual caso l’impresa potrebbe risollevarsi).

Addirittura, un’impresa con patrimonio netto negativo, che però ha ricevuto garanzie dalla casa madre e che per questo motivo continua a mantenere sufficienti fidi bancari, può continuare ad operare – con molte preoccupazioni ma senza rischi immediati. E’ successo in questo millennio alla più grande partecipata della massima impresa industriale del nostro paese. Alla fine, è uscita dalla crisi senza fallire.

Al contrario, un’impresa che ha investito in immobilizzazioni difficili da vendere (per esempio immobili industriali), finanziandoli con debiti a breve scadenza, può anche conservare un patrimonio netto positivo, ma se non riesce a pagare i fornitori e a ripagare le banche, non avrà modo di contrastare una richiesta di fallimento.

In definitiva, tenere sotto controllo la finanza aziendale – e non solo il patrimonio – è una necessità. Ogni imprenditore lo sa.

Il prospetto delle previsioni finanziarie è concettualmente facile:

  1. si inizia dalla posizione di cassa di oggi (il saldo netto dei conti correnti, dei conti anticipi e del denaro in cassa – con il segno negativo se dobbiamo denaro alle banche);
  2. si sommano, con il segno meno, tutte le uscite previste nel periodo (tipicamente il mese). Qui ci saranno le fatture fornitori scadute e a scadere nel mese, le retribuzioni, le imposte e i contributi del mese, gli interessi e i rimborsi previsti sui prestiti (rate di mutui, per esempio);
  3. si sommano poi tutte le entrate previste nel medesimo periodo. Normalmente, si tratta di fatture attive già emesse e da emettere, che si prevede saranno pagate o che saranno oggetto di nuovi anticipi da parte delle banche.
  4. La somma algebrica di questi tre gruppi di voci costituisce la posizione di cassa di fine periodo. Se è negativa, occorre verificare che l’importo non ecceda i fidi bancari disponibili. Se li eccede, vorrà dire che qualcuno – tra i fornitori, Erario, Inps e banche – non potrà essere pagato. I dipendenti sono gli ultimi a non venir pagati.

L’esempio si riferisce al mese in corso, ma il saldo di fine mese costituisce la posizione di cassa iniziale del mese prossimo. Nel mese prossimo si ricalcolano i raggruppamenti 2) e 3) di cui sopra – ovviamente riferiti a pagamenti ed incassi di QUEL mese.

Poi si procede nei mesi successivi, se possibile fino a fine anno, se no fino a quando è significativo. Infatti, nei mesi più prossimi si può conteggiare con ragionevole precisione incassi e pagamenti delle fatture già emesse e ricevute. Per i mesi più lontani, invece, occorre fare delle previsioni sulle fatture che emetteremo e sugli acquisti che faremo. È evidente che il grado di affidabilità delle previsioni diminuisce, più ci si spinge avanti nel tempo.

Per organizzare il tutto, è più facile predisporre un foglio Excel.

La scomodità di questa procedura è il suo aggiornamento: o si mette mano al prospetto ad ogni incasso / pagamento (cosa quasi sempre improponibile), o ci si accontenta di ricominciare da capo almeno una volta al mese.

In teoria, la contabilità dovrebbe fornire buona parte dei dati e rendere automatico l’aggiornamento. In pratica, quando (molti anni fa) guardavo questi tabulati, li trovavo illeggibili, tanto era sgradevole la grafica utilizzata e tanto erano criptiche le descrizioni.

È probabile che oggi i software gestionali offrano risposte migliori, anche se io non li conosco. A dicembre del 2018, l’amico e Collega Matteo Ferrantino mi ha invitato alla presentazione di un software gestionale in continuo sviluppo che promette l’aggiornamento senza sforzo delle previsioni finanziarie. Ne riparlerò nel post finale che concluderà questa serie.

Comunque sia, per poter dimostrare di aver utilmente formulato delle proiezioni finanziarie, occorre conservare (in formato elettronico o, meglio, su carta) una serie regolare di aggiornamenti. In Excel si possono duplicare i vecchi “fogli” (da conservare, anche se danno fastidio) e poi modificarli dopo averne cambiato il nome.

In caso di fallimento, i vecchi fogli – con un saldo finale compatibile con i fidi dell’impresa – dimostreranno l’esistenza di un ulteriore sistema di rilevazione tempestiva della crisi e attesteranno la buona fede dell’amministratore, quando ha deciso che vi erano le risorse finanziarie per continuare l’attività.

Ho già scritto più volte che i miei suggerimenti costituiscono una proposta MINIMA, adottata la quale è poi possibile passare a procedure più approfondite e (normalmente) più costose in termini di tempo e di denaro.

Per dare un’idea del grado di raffinatezza possibile nelle previsioni finanziarie, ricordo che quando ero all’università, venne a tenere una conferenza Luigi Arcuti, presidente dell’allora San Paolo IMI. Le banche vivono di equilibrismo tra provvista a basso costo, soggetta a prelievo immediato, e impieghi che per essere remunerativi devono essere vincolati nel tempo. Le banche non possono però rimanere a secco di liquidità, pena il disastro per sé e per l’intero sistema dei pagamenti. Orbene, Arcuti spiegava che nella sua banca, la gestione della tesoreria era migliorata da quando era stata affidata niente di meno che a INGEGNERI IDRAULICI.

Non credo che nessuna piccola impresa potrà assumere ingegneri idraulici, neppure dopo l’arrivo del Codice della Crisi e dell’Insolvenza.

Nel campo del controllo finanziario (ma solo delle Srl e delle Spa), una seconda iniziativa facile è quella di farsi spiegare in dettaglio, dal proprio commercialista, il significato del “Rendiconto Finanziario” allegato al bilancio di esercizio. Tanti imprenditori pagano il servizio di redazione del Rendiconto (che è diventato obbligatorio dal 2015), ma poi non ne comprendono il significato. A volte neppure lo guardano. Questo è un peccato, perché il Rendiconto dice molto di come è andata la fisarmonica degli incassi e dei pagamenti dell’anno precedente.

Per chi volesse provare a predisporre autonomamente un foglio Excel con le previsioni finanziarie, consiglio di comprare un originale libricino con un titolo strano:

P = Σ (S + R)

Lo ha scritto Pietro Ricca, un consulente d’azienda (e mio amico).

Il titolo vuole dire “Progetto=sommatoria di semplificazioni + risparmi”. Questa è anche la stringa di testo che dovete digitare, per trovare il libro su Amazon.

Il libro è destinato agli imprenditori poco esperti di finanza (per esempio “la latteria di mia nonna”, dice l’autore).

Chi (come me) ama la semplicità, leggerà con entusiasmo frasi come:

“Il metodo di pensare «semplice» cambia completamente il sistema di valutazione aziendale”

e capitoli intitolati  “Tecnologia senza eccessi”  o  “Criterio dell’immediatezza”.

Molti dei libri in circolazione sul controllo finanziario sono traduzioni di testi americani. Negli Stati Uniti, però, i crediti verso clienti sono modesti (i tempi di pagamento sono rapidi) e le banche difficilmente concedono fidi alle piccole imprese. Il risultato è che questi testi, seppur raffinati, non sono adatti alla nostra realtà.

Meglio cominciare dal libricino di Pietro.

 

Continua. Domani la quattordicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (12)

LAVORI SOTTOCOSTO SU COMMESSA: PERCHE’?

Dagli anni ’60 agli anni ’80 (con una sola frenata nel 1974) l’Italia ha vissuto una stagione economica quale quella della Cina di oggi: redditi in spettacolare aumento, migrazioni interne mai viste prima, inquinamento.

Quasi tutti gli Italiani hanno guadagnato qualcosa. Qualcuno ha guadagnato molto più di altri. Tra questi ultimi, ci sono gli imprenditori del settore dell’impiantistica.

L’aumento dei consumi trascina con sé l’aumento della richiesta di beni strumentali (fabbriche). Se è tutta l’economia che sale, allora non bastano le fabbriche, ma ci vogliono anche palazzi, strade, aerei, edifici, ponti, linee elettriche e impianti telefonici.

I beni strumentali durano a lungo nel tempo e costano molto più del valore di quanto annualmente producono.

Questo fa sì che per aumentare di “x %” la produzione di beni di consumo, occorra temporaneamente aumentare la costruzione di beni strumentali di molto più dell’ “x %”.

Gli economisti chiamano questo fenomeno il “moltiplicatore”.

A partire dagli anni ’60, in Italia il “moltiplicatore” ha viaggiato come un treno.

Costruivamo dighe in Argentina e porti in Iran; fabbriche di auto in Unione Sovietica e piattaforme petrolifere marine ovunque. E poi il mercato interno: gli impianti petrolchimici sono iniziati a Marghera e Ravenna, ma poi hanno costellato la costa siciliana. I 760 km dell’Autostrada del Sole sono stati costruiti in poco più di 3.000 giorni, un chilometro ogni 4 giorni – nonostante i ponti e le gallerie dell’attraversamento appenninico e nonostante che i partiti dell’opposizione fossero contrari al progetto. Cornigliano prima e il polo siderurgico di Taranto, dopo, erano acciaierie che reggevano qualunque concorrenza (e allora, in Europa, l’acciaio era una cosa seria: l’attuale Unione è nata proprio dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio).

E poi lo spostamento di popolazione: dal Sud verso il Nord, ma anche dalla montagna e dell’interno verso la pianura e verso la costa. Le città meridionali di mare sono cresciute quasi quanto le città industriali del Nord. Le abitazioni dei borghi impervi venivano abbandonate, ma nei nuovi quartieri delle città in crescita mancavano case, scuole, strade, fognature, illuminazione e linee telefoniche.

Tutte cose che vengono fornite dalle imprese che lavorano su commessa. La richiesta di lavori fatti in fretta e (se possibile) bene era tale che non si badava a spese. I margini di guadagno erano enormi e anche le retribuzioni dei dipendenti erano più alte della media. Un saldatore capace di cavarsela da solo in trasferta, o un capocantiere, o un montatore meccanico venivano contesi con rilanci di centinaia di migliaia di Lire al mese (al tempo ci compravi un motorino).

Chi ha letto “La chiave a Stella” di Primo Levi conosce il clima economico e sociale che si viveva allora.

All’inizio, il settore dei lavori su commessa era dominato dalle grandi imprese. Dopo l’aumento del costo del lavoro dei primi anni ’70, sono arrivate a frotte imprese sempre più piccole – fino al muratore o al saldatore che si licenziavano e prendevano la partita Iva come artigiani. Nessun settore, più dei lavori su commessa, permetteva una tale mobilità sociale: da “proletario” a “capitalista” in cinque / dieci anni.

Tutto questo, per dire che il settore dei lavori su commessa è arrivato pingue e “viziato” all’appuntamento con il calo dei tassi di crescita.

È allora (intorno agli anni ’90) che il settore ha escogitato un meccanismo subdolo ma efficace, per sopravvivere a fronte della pressione al ribasso delle basi d’asta.

I lavori venivano deliberatamente assunti a prezzi bassi – sempre più bassi, mano a mano che il tempo passava. Dove non bastava l’accordo spartitorio, per tenere lontano un concorrente dalla propria “riserva di caccia” si poteva anche assumere l’impegno di lavorare sottocosto.

Al cliente finale veniva detto che si era più efficienti del concorrente, ma la verità era un’altra.

Le verità era che si puntava a recuperare la perdita (con gli interessi), in sede di VARIANTI IN CORSO D’OPERA.

Se la progettazione non era più che perfetta, nel corso dei lavori il cliente si accorgeva di aver bisogno di qualche modifica. A quel punto, però, il cliente non poteva più scegliere: poteva solo rivolgersi alla ditta che già stava eseguendo i lavori.

Chi ha comprato un alloggio “sulla carta” e ha poi provato a chiedere una modifica o un cambio di finiture rispetto al capitolato, sa di cosa parlo. Meno costa l’alloggio, più sono astronomici i costi della varianti richieste successivamente.

È come chiedere il prezzo dopo aver comprato: si è in balia del venditore.

Anche l’impresa che lavora su commessa, però, corre un rischio. Il lavoro di base, a margini risicati o negativi, è una certezza. La variante in corso d’opera, remunerativa, è invece solo una speranza.

Questo “trucco” ha reso molto per decenni, ma ora anch’esso è superato.

I committenti – pubblici e privati – hanno imparato il gioco e ora non si fanno più ingannare.

Come fanno? Progettano meglio e poi soprattutto frazionano i lavori in appalti più piccoli (e più facili di controllare), che si incastrano l’uno nell’altro ma che sono giuridicamente autonomi. In caso di problemi, il committente non deve più ricominciare da zero (che era l’aspetto improponibile del vecchio sistema), ma ci si può raccordare all’ultimo segmento di lavoro che è stato completato.

Quelle imprese di lavori su commessa, che avevano esagerato con il sottocosto, giocando d’azzardo sulle varianti in corso d’opera, sono spesso fallite nell’ultimo decennio.

Tutto questo, richiamando il tema del controllo di gestione e dei costi fissi e dei costi variabili.

Il controllo di gestione obbligatorio farà emergere le situazioni, come quelle appena viste, in cui i ricavi che non coprono neppure i costi variabili. L’azzardo degli amministratori sarà messo a nudo e scatterà la loro responsabilità patrimoniale personale.

Da domani, torniamo agli altri miei “suggerimenti minimi” per rilevare tempestivamente la crisi.

 

Continua. Domani la tredicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (11)

COSTI FISSI E VARIABILI: FINE DEL PROCRASTINARE

Chi tiene sotto controllo costi fissi e costi variabili, viene a perdere una delle possibili scuse per continuare ad operare distruggendo ricchezza.

Questo può sembrare un problema, ma è proprio quello che vuole la nuova legge.

Oggi, il segnale della crisi è dato dal patrimonio netto negativo. Anche quando il patrimonio è perso durante l’anno, gli amministratori fanno finta di essersene accorti solo con il bilancio del 31 dicembre. Poi indicono l’assemblea a giugno dell’anno dopo, ma la fanno andare deserta (anche quando sono loro stessi i soci!). A settembre si ritrovano e per prendere appuntamento dal notaio per la straordinaria vanno a novembre. A gennaio del terzo anno (se va bene) chiedono il fallimento.

In pratica, l’insolvenza viene riconosciuta quasi due anni dopo da quando è nata. Nel frattempo, si è accresciuta come un cancro.

Controllando costi fissi e variabili, invece, le premesse economiche per il fallimento emergono molto prima.

Per esempio, una pizzeria che abbia costi fissi di € 3.000 al mese e che venda una pizza ad € 15, con € 5 di costi variabili per ogni pizza, sa che deve vendere almeno 300 pizze al mese per non diventare più povera.

Se in un mese ne ha vendute solo 250, squilla il primo allarme.

Per colmare il deficit, il mese dopo deve venderne almeno 350, oppure si trascinerà il “buco” fino a fino anno.

È però un vantaggio saperlo fin da subito. Così come è un vantaggio sapere come si può reagire:

  • se la riduzione delle ordinazioni a 250 / mese diventa permanente, è utile sapere che si può recuperare aumentando il prezzo ad € 17;
  • oppure, che si può provare a risparmiare 2 Euro sul condimento di ciascuna pizza.

Se tutte le vie d’uscita si ritengono impraticabili, si può pensare alla cessazione di attività, o alla vendita a terzi. È ben diverso, decidere questo PRIMA di aver perso il patrimonio netto.

Solo la conoscenza dei costi fissi e di quelli variabili, permette questi ragionamenti.

Il tutto mese per mese, senza aspettare il bilancio annuale – quando magari sarà troppo tardi per la cura, perché l’impresa nel frattempo si è dissanguata.

Chi pensa che siano rari i casi di imprese che non coprono neppure i costi variabili, si ricordi di tutte le volte che ha visto un cantiere (pubblico o privato) abbandonato, con gru e mezzi d’opera ad arrugginire o venir saccheggiati. Nel campo degli appalti – ma più in generale in tutti quelli delle opere su commessa, dai sarti alle costruzioni navali, passando per l’edilizia, le riparazioni e l’impiantistica – il fallimento molto spesso è determinato non dai costi fissi, ma dal lievitare dei costi variabili oltre le previsioni.

Anzi, così come lo conosco io, il settore degli appalti e delle costruzioni meccaniche ed edili su commessa, in Italia è (o era fino a ieri) STRUTTURALMENTE organizzato per lavorare sottocosto.

Magari domani apro una parentesi rispetto al controllo di gestione e ne faccio un post a parte.

 

Continua. Domani la dodicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (10)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: PERCHÉ SONO IMPORTANTI PER L’INSOLVENZA

Indipendentemente dalla sua utilità per gestire l’impresa, la classificazione dei costi (ripartiti tra fissi e variabili) fornisce al gestore dell’impresa un ottimo strumento per dimostrare (ad insolvenza dichiarata) di essersi organizzato per rilevare tempestivamente la crisi.

Sì, perché la situazione di perdita di bilancio (che dopo un po’ azzera il patrimonio netto e prima o poi si traduce nell’impossibilità di pagare anche solo i debiti correnti) presenta due possibili sfaccettature che richiedono interventi del tutto opposti:

  1. se l’impresa in crisi copre tutti i costi variabili, per risollevarsi deve “solo” aumentare le vendite;
  2. se l’impresa in crisi non copre neppure i costi variabili, deve fare il contrario, ovvero FERMARE l’attività – scegliendone una redditizia se ce l’ha a portata di mano, se no è meglio che vada in liquidazione.

Torniamo all’esempio di due giorni fa del rematore contro-corrente.

Nel caso n. 1, il rimedio è di remare più vigorosamente. Poi magari, il rematore sta già impegnando tutte le sue energie, e allora anche lui dovrà rassegnarsi ad abbandonare il campo, magari cedendo il posto a un collega più forte.

Nel caso n. 2, invece, la barca sta procedendo al contrario e ogni colpo di remo ACCELLERA la corsa nella direzione della corrente – quando già si sa che a valle c’è una cascata a strapiombo. In questo caso, occorre girare la barca, prima ancora di riprendere a remare. Se il rematore non è più che esperto, oltre che forte, il suo dovere è quello di puntare alla riva prima di sfracellarsi (e di sfracellare gli altri marinai e chi gli ha imprestato i soldi per comprarsi la barca).

L’aver istituito una contabilità che evidenzi separatamente costi fissi e costi variabili sarà la prima giustificazione dell’amministratore dell’impresa insolvente.

Chiaramente, però, se poi l’amministratore non segue quello che la contabilità gli dice (soprattutto se versa nella scomoda situazione n. 2) avrà comunque problemi. Non però quello di essere incolpato di non aver istituito uno strumento di rilevazione della crisi.

Idem per chi versa nella situazione n. 1, anche se in questo caso il nuovo piano dei conti sarà ancora più utile, perché la dimostrazione di un “margine di contribuzione” giustificherà (almeno inizialmente) l’amministratore che ha continuato a lavorare in perdita.

Secondo me, l’esistenza di una ripartizione dei costi tra fissi e variabili può essere un’utile dimostrazione di aver istituito un sistema di controllo ANCHE nei casi (visti ieri) di imprese multi-prodotto o con ricarichi diversificati.

È vero, in questi casi la contabilità non fornisce elementi utili per indirizzare la modifica del mix di prodotti / ricarichi. Il dato generale sulla copertura o meno dei costi variabili, però, rappresenta comunque un’indicazione della situazione di fatto A PARITÀ DI MIX DI PRODOTTI / RICARICHI.

Nell’immediato, è comunque un dato utile.

 

Continua. Domani la undicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (9)

UN’ESPERIENZA PRATICA, CON MONITO FINALE

Queste considerazioni possono sembrare astruse, ma la prima volta che ho utilizzato il concetto di punto di pareggio in un caso pratico, l’effetto è stato dirompente.

Un cliente gestiva un ‘attività di commercio con numerosi dipendenti e miliardi di Lire di vendite.

Il cliente non era soddisfatto dei risultati e mi ha chiesto un parere “spot“. Non sapeva cos’era la contabilità dei costi, ma nel commercio è sufficiente la contabilità generale: l’acquisto di merci è l’unico costo variabile; tutto il resto sono costi più o meno fissi. Il cliente era sicurissimo del ricarico medio che applicava.

Utilizzando queste premesse, costruisco il grafico del punto di pareggio e gli dimostro che (al ricarico teorico) le vendite che il negozio realizzava, avrebbero dovuto fruttare un decorosissimo utile e non invece la perdita che da un po’ di anni si ripeteva.

A questo punto gli ho detto: o il ricarico effettivo è decisamente inferiore a quello che si crede (magari a causa dei saldi), oppure … qualcuno ruba merce dai magazzini. In quel momento, quest’ultima idea risultava impensabile.

Ho suggerito un sistema di rilevazione dei carichi e scarichi di magazzino con codici a barre (in allora ancora una novità) e ho segnalato un dirigente industriale in pensione che avrebbe potuto seguirne l’implementazione. La curiosità iniziale è diventata scetticismo quando sono arrivati i preventivi di spesa. Oltretutto, i soci di minoranza che lavoravano in azienda mugugnavano fin dall’inizio.

Dopo anni ho incontrato casualmente l’imprenditore e mi ha detto che il negozio era stato chiuso (con sacrifici personali dei soci per evitare il fallimento) e che nel trambusto finale, diversi dipendenti avevano raccontato di carichi di merce che venivano trasferiti su altri furgoni, invece che venire scaricati in magazzino.

Senza (in allora) esperienza pratica, e solo grazie al grafico del punto di pareggio, io già l’avevo intuito.

Però attenzione: costruire il grafico del punto di pareggio partendo dalla contabilità generale (migliorata solo separando costi fissi e costi variabili) è efficace per chi ha un solo prodotto o servizio. Oppure per chi esercita il commercio con ricarichi più o meno uguali. O ancora, per chi vende servizi con predominanza di costi fissi.

Per chi fabbrica più prodotti, o per chi vende beni e servizi con ricarichi molto diversi, la semplice separazione dei costi tra fissi da quelli variabili offrirà un aiuto modesto nella guida dell’impresa.

Queste aziende più complesse, non si possono accontentare di “vendere di più”, ma devono anche conoscere quali sono le linee di business poco remunerative (da abbandonare) e quali quelle remunerative (sulle quali impegnarsi). La contabilità generale non fornisce quasi mai questi dati, neppure quando si separano i costi fissi dai variabili.

In ogni caso, rivedere il piano dei conti comporta il vantaggio formale (“far vedere di aver fatto”), così come vedremo domani.

Continua. Domani la decima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (8)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: A COSA SERVE TENERLI SEPARATI

Dimentichiamo per un attimo tutte le complicazioni, approssimazioni ed errori che sono inevitabili la prima volta che i costi vengono suddivisi tra fissi e variabili.

Facciamo finta di essere arrivati – dopo anni di affinamenti progressivi e non poche spese – ad avere una contabilità dei costi che produce risultati del tutto affidabili.

A questo punto, io imprenditore che ho separato correttamente i costi fissi da quelli variabili, vengo a conoscere due dati preziosissimi:

  • quanto denaro perderei, se mantenessi aperta la mia impresa FERMANDO DEL TUTTO LE VENDITE (e se esiste fermando anche la produzione). Questa perdita è pari ai costi FISSI totali. Ovviamente, io non voglio affatto fermare vendite e produzione, ma il dato della perdita massima mi serve per metterlo a confronto con il punto successivo;
  • il secondo dato preziosissimo è quanto mi rende una vendita. Per arrivarci devo fare un piccolo ragionamento: il totale dei ricavi è facile da conoscere; confrontando questo totale, con il totale dei costi VARIABILI, vengo a conoscere il ricarico medio effettivo. Ad esempio: se in un anno ho venduto € 100.000 e i miei costi variabili sono stati € 80.000, vorrà dire che ogni Euro di vendite mi porta a casa 20 centesimi di “margine di contribuzione”.

Incrociando i due concetti si arriva a scoprire il “punto di pareggio”, ovvero il livello di vendite che mi permette di coprire tutti i costi fissi.

In altre parole: dato che ogni Euro di vendite mi frutta (nel nostro esempio) 20 centesimi, per quante volte dovrò portare a casa questi 20 centesimi, prima di aver coperto tutti i costi fissi?

Attenzione, però: questo importo che ho calcolato (la serie dei 20 centesimi, poi quintuplicati per conoscere l’ammontare in Euro delle vendite), coprirà solo i costi fissi e nulla di più. Per realizzare un utile, dovrò vendere UN PO’ DI PIÙ del punto di pareggio. Se venderò UN PO’ DI MENO del punto di pareggio, subirò una perdita.

Inserisco qui una rappresentazione grafica del punto di pareggio (tratta dal sito www.MarchegianiOnLine.net, una piccola miniera di documenti utili al commercialista).

Grafico

Lascio al Lettore collegare il grafico a quanto ho scritto, precisando solo che per “numero di pezzi” si può anche leggere “vendite in €“.

Se il collegamento diventasse difficile, offro questo esempio: il punto di pareggio è lo sforzo che deve fare un rematore contro-corrente, per restare fermo. Se il barcaiolo rema con più forza di quanto gli richiede il punto di pareggio, realizzerà un utile. Se rema con meno forza, arretrerà.

Fino a quando l’imprenditore non conosce l’ammontare delle vendite che portano al pareggio, remerà alla cieca, guardandosi intorno ogni momento, per capire se sta andando avanti o indietro.

Si può fare, e molti lo fanno. Ma c’è di meglio.

 

Continua. Domani la nona parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (7)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: DOVE STA LA DIFFERENZA

Il concetto non è difficile: sono costi fissi tutti quelli che non variano al variare della produzione. Il riscaldamento di un ufficio, ad esempio, è un costo fisso, perché dove fa freddo tocca tenerlo acceso sia negli anni in cui in sala d’aspetto non c’è spazio per tutti, sia in quelli in cui i ragni fanno la tela sulle tastiere dei PC.

I costi variabili, invece, sono connessi al volume del prodotto o del servizio che viene venduto. Per il commerciante, le merci sono un classico esempio di costo variabile: più ne vende, più ne deve comprare – con un collegamento rigido tra vendite ed acquisti, con in mezzo a fare da polmone, solo il “magazzino”.

Purtroppo, molti costi sono semi-variabili. L’energia elettrica, per esempio, è un costo fisso per quanto riguarda l’illuminazione ed è variabile per quanto riguarda la forza motrice. All’interno della bolletta, poi, c’è un corrispettivo fisso per la potenza massima impegnata ed uno variabile per i kilowattora effettivamente consumati.

Le imprese che spendono molto di energia elettrica e che mantengono un controllo di gestione rigoroso, hanno contratti separati per l’energia elettrica destinata ad illuminazione e per quella destinata a forza motrice. Inoltre, ripartiscono il costo di ogni singola fattura elettrica su due voci: la componente fissa e quella variabile.

Il nostro imprenditore, alle prese con l’abc del controllo di gestione, nell’immediato non potrà arrivare a questi livelli di raffinatezza. Dovrà accontentarsi di attribuire la spesa elettrica ad una delle due categorie (fissa o variabile), a seconda che prevalga l’aspetto fisso oppure quello variabile.

L’imprenditore è il miglior giudice di queste cose, ma non è detto che neppure lui ci azzecchi infallibilmente. Dopotutto, il controllo di gestione serve proprio per aprire gli occhi dell’imprenditore sugli aspetti nascosti della sua impresa. In questo caso, emerge un limite della mia proposta, limite che ho riconosciuto fin dall’inizio: la proposta è meglio di niente, ma lascia ampi spazi a futuri miglioramenti!

L’altra grande voce di costo che genera dubbi è rappresentata dalla manodopera, il cui costo sale “a gradini” quando sale il fatturato e tende a rimanere fisso, quando invece il fatturato scende. Anche in questo caso, il nostro imprenditore si regolerà “a buon senso”, a seconda del ciclo in cui si trova (in aumento o in declino) e a seconda del peso dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, rispetto ai vari contratti di lavoro flessibili o alla possibilità di ricorrere al conto-lavoro esterno. O magari anche a seconda della vicinanza alla pensione dei lavoratori.

Nel lungo termine, tutti i costi diventano variabili (il capannone può essere venduto, il personale stabile può essere ridotto bloccando in turnover). Vedremo in seguito che, almeno in prima battuta, conviene mantenere un approccio di breve termine, ovvero guardare solo fino al prossimo bilancio.

Separati in qualche modo i costi variabili da quelli fissi, il nostro imprenditore sarà in grado di dimostrare di aver fatto il primo e fondamentale passo verso il controllo di gestione.

L’ideale sarebbe di rivedere il piano dei conti PRIMA dell’inizio dell’anno. In quelle realtà in cui i movimenti contabili non sono molti, però, a marzo dovrebbe essere ancora possibile frazionare i soli “conti calderone” dei costi, ripartendoli su nuovi conti maggiormente dettagliati.

Separare costi fissi e costi variabili, invece, è possibile (anche retroattivamente) in qualunque momento dell’anno, perché basta aggiungere un codice a tutti i conti esistenti.

Di solito, i programmi di contabilità prevedono una gerarchia tra i conti a molti livelli. Le imprese più piccole sfruttano solo due o tre livelli di questa gerarchia. Per questo motivo, nei numeri di conto si vedono spesso sfilze di zeri che danno solo fastidio all’occhio.

Sfruttare maggiormente le potenzialità del programma di contabilità è già un segno di miglioramento gestionale.

 

Continua. Domani la ottava parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (6)

MIGLIORARE IL PIANO DEI CONTI

Questa è una mossa alla portata di tutti, che richiede poco tempo (mezza giornata?), non richiede esborsi di denaro, lascia una chiara traccia documentale, è subito utile dal punto di vista gestionale e servirà anche un domani, quando si volesse passare ad un controllo di gestione e ad una contabilità dei costi “come Dio comanda”.

La maggior parte dei piani dei conti vengono preparati dal commercialista “fiscalista”, nel momento in cui l’impresa viene costituita.

Nella mia esperienza, questi piani dei conti, progettati all’esterno, tendono ad essere accettabili solo a livello di conti dello Stato Patrimoniale e della sezione Ricavi del Conto Economico. Sui conti patrimoniali, i commercialisti sono tutti competenti. Sui conti dei ricavi, è l’imprenditore che spiega cosa gli serve (di solite Vendite Italia / Vendite Estero, e poi ancora Vendite Prodotto A, Vendite Prodotto B, ecc.).

I piani dei conti progettati all’esterno tendono invece ad essere inadeguati a livello della sezione COSTI del Conto Economico.

Tra i costi, si trova spesso un dettaglio esasperato su quelle voci che servono o servivano per la dichiarazione dei redditi e per gli studi di settore. Per esempio, si trovano:

  • conti intestati ai costi dei telefoni fissi, separati da quelli intestati ai costi dei telefoni cellulari;
  • conti molto numerosi e dettagliati, intestati ai singoli diversi costi delle automobili (pneumatici, riparazioni, carburante, bollo, assicurazione). Le stesse voci sono poi ripetute in modo distinto per gli autocarri;
  • conti intestati ai rimborsi spese dei dipendenti, separati a seconda che le spese siano sostenute nel comune sede di attività piuttosto che in altri comuni.

Dove invece non ci sono esigenze fiscali o di bilancio, si trovano spesso voci di una genericità assoluta, tipo:

  • “prestazioni di servizi”;
  • “acquisti di beni”;
  • “spese indeducibili”.

A distanza di anni, non si riesce più a ricostruire cosa davvero contengano questi conti «calderone», a meno di non prendere in mano le fatture (cosa quasi sempre improponibile, per il Curatore, se non per singole fatture specifiche).

Orbene, l’imprenditore oculato dovrebbe oggi riesaminare criticamente la sezione “costi” del suo piano dei conti. Magari facendosi assistere dal suo fiscalista, ma senza delegargli la revisione in autonomia.

I conti dettagliati che servono al commercialista possono essere mantenuti, ma occorre aggiungere nuovi conti dettagliati. In particolare, occorre :

  • creare nuovi conti dettagliati, relativi a TUTTE quelle singole categorie di spese che influiscono significativamente sul prezzo finale del prodotto / servizio che viene prodotto o anche solo venduto;
  • attribuire un ulteriore codice a tutte le voci di costo (quelle già esistenti e quelle che sono appena state create), in modo da evidenziare e separare:
  1. i costi FISSI;
  2. i costi VARIABILI.

 

Continua. Domani la settima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (5)

UN INCISO SULLE REGOLE DEL GIOCO

Prima di illustrare in dettaglio i miei tre suggerimenti, aggiungo tre annotazioni:

  1. a differenza della contabilità generale (che deve rispondere a “principi contabili” ben codificati), la contabilità dei costi è libera, nel senso che viene organizzata a seconda delle esigenze di ciascuna impresa. E non solo: c’è sostanzialmente un modo solo di tenere (correttamente) la contabilità generale, ma ci sono tanti modi per tenere la contabilità dei costi, a seconda del grado di dettaglio che si vuole raggiungere. Questa costruzione “su misura”, tra l’altro, spiega PERCHÈ impiantare una contabilità industriale spesso costa di più che non impiantare una contabilità generale;
  2. mentre la contabilità generale deve quadrare “al centesimo”, la contabilità dei costi molto spesso si deve accontentare di approssimazioni, magari anche grossolane. Una contabilità dei costi perfetta, infatti, arriva a costare più dei benefici che apporta.
  3. è difficile arrivare subito ad una contabilità dei costi efficace, già al primo tentativo. Spesso è necessario intervenire in un secondo tempo con rifacimenti e messe a punto, facendo tesoro degli errori iniziali e apportando tutti quei miglioramenti pratici che solo l’esperienza può suggerire.

Tutto questo mi porta a dire che anche proposte molto modeste, come quelle che seguono, potranno risultare credibili, un domani che l’imprenditore dovesse dimostrare di aver messo in atto l’ “assetto organizzativo” richiesto dalla Legge.

Soprattutto se a queste prime misure faranno seguito altre, più elaborate, che probabilmente saranno introdotte ricorrendo ad un consulente esterno.

A quel punto, però, il nostro imprenditore potrà ascoltare il suo nuovo consulente, conoscendo già, in parte, di cosa si sta parlando.

 

Continua. Domani la sesta parte.