Raccolta degli articoli editi dallo studio su vari argomenti inerenti l’attività

Risvolti penali dell’insolvenza

Inizio ottobre. Convegno dell’Unione Giovani Commercialisti di Torino. Prende la parola un PM di lunga esperienza, recentemente diventato Aggiunto nella Procura di un’importante città piemontese.

Per far capire quanto potere la Legge lascia a chi deve reprimere i reati fallimentari, fa un esempio illuminante, che io sinetizzo come segue.

Nelle democrazie liberali, come la nostra, un principio è sacrosanto: è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato.

Ciononostatnte, nella repressione dei reati fallimentari il principio è smentito dall’art. 324 del nuovo Codice della crisi e dell’insolvenza, che si intitola “Esenzioni dai reati di bancarotta“.

Ecco dunque che viene indirettamente ammesso che per i reati fallimentari vale un diverso principio: di fatto è vietato tutto ciò che non è espressamente ammesso.

Quanto aggiungo io è che la repressione penale del fallimento (ops, della liquidazione giudiziale) è severissima e finisce di rattare allo stesso modo veri delinquenti e imprenditori in buona fede, che in circostanze per loro nuove hanno fatto ciò che dettava il buon senso e/o la disperazione.

Per esempio, un imprenditore che abbia posto a carico dell’impressa sue spese personali (che so, un viaggio, un elettrodomestico di casa) e che poi sia dichiarato insolvente, può venire accusato di bancarotta fraudolenta anche se il fatto risale a molto tempo prima del fallimento e anche se ai tempi l’impresa era sana.

Altro esempio: fuori dall’insolvenza, il reato di falso in bilancio viene contestato molto più raramente di un tempo, Se però il falso viene commesso da una società che poi viene dichiarata insolvente, ecco che il falso può tramutarsi in un’accusa di bancarotta fraudolenta. A passare al setaccio i vecchi bilanci (senza limita alla retroattività), ci pensa il il Curatore.

Sul mio sito pubblico otto video su altrettsnte voci di bilancio che spesso il Curatore contesta agli ex amministratori della società fallita.

L’altra concessione

Il crollo del ponte Morandi, nel 2018, ha portato all’attenzione di tutti gli italiani il tema delle concessioni

Lo Stato può decidere che, pur rimanendo pubblico, un bene si riveli più utile alla collettività, se gestito – per un certo tempo – da un privato “convenzionato”.

Lo Stato potrebbe lasciare libere le spiagge che circondano la nostra penisola, ma ritiene più utile che vengano mantenute pulite e ben organizzate da gestori privati, che oltretutto pagano allo Stato un canone (in passato simbolico, oggi un po’ più elevato). La controversia che riguarda le concessioni delle spiagge (controversia in cui entra anche l’UE e l’insoddisfazione dei consumatori per i prezzi elevati che i concessionari applicano al pubblico) bene illustra l’importanza delle concessioni.

Sì, perché oltre alle spiagge, lo Stato concede (o concedeva) ai privati la gestione di beni ancora più “strategici”: la raccolta delle imposte, le onde radiotelevisive, la rete autostradale, la rete telefonica, la rete ferroviaria, la rete di trasporto del gas, le risorse del sottosuolo (dagli idrocarburi terrestri e marini alle cave di pietra, ghiaia e sabbia). La rete idrica fa capo agli enti pubblici territoriali, ma il discorso non cambia. La rete elettrica era privata fino alla nazionalizzazione del 1962 (forse il traguardo  maggiore del “centrosinistra”).

Fino agli anni ’90 le imprese che prendevano in concessione i beni pubblici erano anch’esse controllate dallo Stato. La concessione trasferiva potere dai dirigenti del Ministeri agli amministratori delegati delle imprese di Stato (o delle società a partecipazione statale), ma il Governo era comunque in grado di controllare entrambe le categorie.

Con la privatizzazione di Telecom, si è inaugurata la stagione dell’ingresso dei privati nella gestione dei beni pubblici. In parallelo, le norme antitrust europee hanno introdotto la concorrenza (spesso transfrontaliera) in settori un tempo protetti.

La posta in gioco può essere enorme, anche solo per la gestione dei beni, senza modificarne la proprietà. Il caso delle autostrade è emblematico. Dopo il crollo del ponte Morandi si è tornato a parlare di un libro uscito anni prima e quasi ignorato: “I signori delle autostrade“. Un gruppetto di docenti universitari di materie economiche aveva documentato, anche numericamente, come lo Stato si è dato la zappa sui piedi, prima privatizzando le società concessionarie autostradali (ad un prezzo basso, perché i bilanci mostravano utili modesti) e poi concedendo significativi aumenti tariffari, che hanno tonificato i bilanci. Il danno per lo Stato è andato a beneficio degli acquirenti delle società concessionarie (che oltretutto hanno effettuato pochi investimenti in manutenzione e miglioramento, come il caso ponte Morandi sembra indicare).

Per quanto importanti siano le autostrade, le Ferrovie dello Stato lo erano (e lo sono) ancora di più.

Fino al 1986, lo Stato gestiva direttamente le ferrovie. L’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato era “autonoma” solo in alcuni aspetti della gestione contabile, ma aveva sede fisica all’interno del ministero dei Trasporti, era presieduta dal Ministro dei Trasporti ed era controllata contabilmente dalla Corte dei Conti.

Nel 1986 l’Azienda Autonoma diventa Ente Ferrovie dello Stato (al pari dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, ENEL). Si susseguono poi una serie di passaggi fino ad arrivare al 1992, quando la forma giuridica diventa totalmente privatistica: una Società per azioni come holding di vertice, con tante società operative da essa controllate. La holding di vertice oggi si chiama Ferrovie dello Stato Italiane Spa (ma ha cambiato più volte denominazione), mentre società controllate di gran lunga più importanti sono Rete Ferroviaria Italiana Spa (proprietaria e gestore dei binari, delle stazioni e dell’infrastruttura) e Trenitalia (proprietaria e gestore dei treni). RFI svolge un servizio pubblico ed è obbligata a mettere a disposizione la rete a tutti gli operatori tecnicamente qualificati che lo richiedono. Trenitalia è una società di trasporti in libera concorrenza con altre imprese e non può ricevere aiuti di Stato.

Vi è un aspetto della trasformazione in Spa dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, che non è stato portato all’attenzione del grande pubblico. Ha però un grande rilievo: la nuova Spa (e in particolare RFI) non è diventata titolare della sola concessione, ma è diventata proprietaria dell’infrastruttura.

La giustificazione logica di questa scelta sta nel fatto che l’Azienda Autonoma aveva ricevuto in concessione d’uso una parte trascurabile della rete ferroviaria (quella che esisteva nel 1906, quando i privati hanno venduto allo Stato – allo scadere della convenzione – quanto avevano costruito. Le società Bastogi e Mittel hanno continuato a fare affari per un secolo, con questa dotazione finanziaria). Il resto della infrastruttura ferroviaria è stato costruito o incrementato dall’Azienda Autonoma, dopo il 1906.

È anche vero, però, che l’Azienda Autonoma di fatto era lo Stato e che i suoi investimenti sono stati finanziati non dai suoi utili (che non sono mai esistiti), ma dall’Erario.

Nell’immediato, lo Stato rimane proprietario dell’infrastruttura, perché ha il 100% delle azioni di RFI, tramite FSI. Un domani che FSI fosse privatizzata, però, lo Stato perderebbe la rete, oltre che la concessione. Ora che le ferrovie generano utili (soprattutto grazie all’altra velocità) la privatizzazione è diventata una possibilità concreta.

Con le autostrade era andata diversamente, perché era stata privatizzata solo la concessione del loro utilizzo, non il bene autostrade in sé.

A giudicare dalla passione con cui si discute l’apertura alle società di capitali (anche straniere) della gestione delle spiagge, se ne trasferisse la proprietà, per sempre, ai gestori stessi, è immaginabile una sollevazione popolare.

Per le Ferrovie dello Stato è successo, o quando meno è stato un compiuto un passo irreversibile in questa direzione. Nessuno sembra essersene accorto.

Nell’ambito del processo sulle responsabilità del disastro ferroviario di Viareggio, ho studiato a fondo il mondo delle ferrovie italiane, scoprendo fatti – come questo – che non conoscevo. Il mio lavoro è stato commentato estensivamente nelle sentenze del Tribunale di Lucca, della Corte d’Appello di Firenze del 2017 (commentata qui) e della Cassazione 2021 (commentata qui).

Immobilizzazioni immateriali e falso in bilancio

L’imprenditore che redige un bilancio è sempre sottoposto ad almeno una di due tentazioni.

Se l’azienda produce utili, è tentato di apparire più povero per pagare meno tasse.

Se l’azienda produce perdite, è tentato di apparire più ricco del reale per continuare a ricevere credito da banche e fornitori.

Il consulente tecnico-contabile in ambito fallimentare tipicamente incontra la seconda situazione.

La voce “Immobilizzazioni immateriali” è oggi la preferita, da chi vuol fare apparire in bilancio una consistenza patrimoniale che in realtà non esiste. Un tempo, si usava la voce “Rimanenze”, ma oggi molte aziende operano nei servizi, o comunque mantengono rimanenze comunque basse: anche raddoppiandone falsamente l’importo non sarebbero sufficienti a raddirizzare un bilancio pericolante e attirerebbe comunque l’attenzione.

Marchi brevetti e software (tutti parte delle immobilizzazioni immateriali), invece, sono oggi oggetto di forti investimenti e appaiono quindi credibili anche quando non sono veri.

Nella mia esperienza, anche quegli imprenditori sfortunati che hanno capitalizzato vere immobilizzazioni immateriali (e qualcuno c’è) dimenticano di redigere le specifiche schede contabili atte a dimostrare la verità di questa posta.

A fronte di un successivo fallimento che ha azzerato il valore di queste immobilizzazioni, il consulente tecnico contabile dell’indagato, trova arduo dimostrare che al tempo la voce era vera.

Su questo argomento, ho pubblicato in passato un video (qui).

Una delle undici Sentenze che ho pubblicato (per estratto anonimo) sul mio sito, mostra il caso di un sindaco di Srl fallita, accusato di bancarotta fraudolenta da falso in bilancio (anche) per l’iscrizione di immobilizzazioni immateriali che il Curatore e poi il PM avevano ritenuto fittizie. Su questo punto, il GIP ha espressamente adottato la tesi tecnica (innocentista) che avevo esposto nella consulenza di parte (qui).

Il momento cruciale per l’indagato

C’è un momento cruciale nella vita di una persona soggetta ad un procedimento penale.

È il periodo che intercorre tra la notifica della chiusura indagini (il cosiddetto “415-bis”) e la richiesta – da parte del PM – del rinvio a giudizio.

In questo lasso di tempo (che come minimo dura venti giorni, ma che il PM spesso prolunga anche di mesi) l’indagato conosce i reati che gli vengono imputati e può ottenere copia di tutti i documenti che il PM è riuscito a raccogliere a suo carico. L’indagato – soprattutto – può fornire spiegazioni al PM. Può farsi interrogare, può presentare documenti, può depositare una consulenza tecnica che lo discolpi.

Il PM non ha interesse ad iniziare un processo che perderà. È quindi interessato a conoscere quali nuovi elementi – a discolpa – ha in mano l’indagato. Se gli elementi sono “forti”, il PM non perde certo la faccia, se cambia atteggiamento rispetto al “415 bis” e se chiede l’archiviazione del procedimento (o se qualifica i fatti come reati meno gravi e magari già prescritti).

Bisogna spiegarglielo con chiarezza ed evidenza, ma sicuramente in questa fase il PM è meno radicato nelle sue convinzioni di quanto diverrà nell’eventuale processo successivo.

Per il cliente finale, ottenere la richiesta d’archiviazione da parte del PM è una doppia vittoria: non solo esce moralmente a testa alta, ma si risparmia anni di ansie e di costi elevati, che qualunque processo implica. Un processo è complicato come un trapianto di cuore: potendo, è molto meglio guarire senza l’operazione.

Alcuni avvocati difensori preferiscono attendere la richiesta di rinvio a giudizio (e l’inevitabile processo), per non scoprire le carte con il PM. Anche questa è una strategia valida: mettiamo che la consulenza tecnica acquisita dal PM contenga degli errori. Portarli subito in evidenza, prima del rinvio a giudizio offre l’occasione al CT del PM di sanare gli errori con un’integrazione di CT e arrivare al processo più saldo. Portare alla luce gli errori in udienza, invece, vuol dire mettere il CT del PM in affanno e mostrarlo insicuro agli occhi del Giudice. In questo modo, tutto il lavoro del CT del PM (anche le parti che invece erano valide) rischia di apparire inconsistente.

In queste circostanze, il consulente tecnico dell’indagato deve attenersi alle scelte dell’avvocato. L’avvocato è come il direttore d’orchestra: il CT è uno dei suonatori.

Tra gli undici esempi di mie consulenze tecniche rivelatesi positive (secondo le sentenze), che ho recentemente pubblicato sul mio sito, tre consistono in richieste di archiviazione da parte dello stesso PM, che in sede di 415 bis aveva indicato reati gravi. Si tratta di una sospetta usura (qui), di un falso in bilancio contestato come bancarotta, ad un sindaco di Srl (qui) e di operazioni dolose contestata all’amministratore unico di una Srl fallita (qui).

Il rischio di comprare da un evasore Iva

Chi compra il pane ed esce dalla panetteria con lo scontrino, certo non si preoccupa se il panettiere verserà o meno l’Iva che è appena stata pagata“.

 

Così avevo scritto in una mia pubblicazione (qui). La cosa ha colpito una PM, che doveva decidere se rinviare a giudizio una imprenditrice che quasi inconsapevolmente e con un tornaconto minimo era finita a fare da “filtro” in un carosello Iva più raffinato del solito.

Nei primi decenni di esistenza dell’imposta sul valore aggiunto, l’imprenditore poteva sostanzialmente comportarsi come il privato dell’esempio iniziale: l’importante era essere in regola nel perimetro che ricade espressamente sotto la propria responsabilità. Quello che succedeva “prima” o “dopo” era un problema degli altri imprenditori.

Con l’arrivo dei “caroselli Iva”, gli inquirenti hanno iniziato ad essere sospettosi anche di chi compra e detrae l’Iva in maniera formalmente corretta. Il “carosello Iva”, infatti (la descrizione è qui) trasferisce sull’acquirente il vantaggio del mancato versamento da parte della “cartiera”. La “cartiera” fa da capro espiatorio ed è destinata al fallimento sin dall’inizio dell’operazione. L’acquirente fa finta di comprare in buona fede, ma intasca il provento della frode.

Se non che, c’è anche chi compra in buona fede. Farsi allettare dal prezzo basso non vuole sempre dire essere in combutta con una “cartiera”.

Di qui il rischio di vedersi contestata la partecipazione ad un “carosello Iva”, quando si è solo approfittato di un prezzo basso.

Credo che la PM che aveva chiacchierato con me, in una consulenza tecnica istantanea (e gratuita, purtroppo), alla fine abbia rinviato a giudizio l’imprenditrice “filtro”. Quasi sempre si presume che l’imprenditore debba essere più attento ed esperto del normale acquirente di pane.

Però dall’accusa ci si può anche difendere. Per leggere un esempio di un processo in cui si trattava di questo tema e che si è concluso con la vittoria dell’imprenditore accusato, potete seguire questo link.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (14)

IL MAGAZZINO, MINA VAGANTE FUORI DAL RADAR CONTABILE

Il terzo ed ultimo suggerimento MINIMO, per chi vuole adeguare il suo assetto organizzativo impiegando poco denaro e poco tempo, consiste nell’istituire la contabilità di magazzino.

Rispetto ai due suggerimenti precedenti, mettere sotto controllo il magazzino è più complicato e costoso.

In cambio, però, il controllo del magazzino non serve solo per rilevare più tempestivamente l’eventuale crisi dell’impresa, ma quasi sempre porta anche immediati benefici in termini di liquidità: viene immobilizzato meno capitale – visto che di per sé le rimanenze non fruttano alcunchè ed anzi possono venire danneggiate, venire rubate o diventare obsolete. In periodi di deflazione, possono anche perdere di valore, pur rimanendo tecnicamente utili.

Dal punto di vista del controllo di gestione.

Dal punto di vista del controllo di gestione, occorre richiamare il fatto che il sistema contabile utilizzato in Italia per redigere il Conto Economico (sistema che viene detto a “costi ricavi e rimanenze“) non permette neppure di conoscere il risultato netto che è stato raggiunto da inizio anno.

Nei bilanci di verifica che si stampano in corso d’anno, infatti, manca un dato fondamentale: le vere rimanenze di magazzino.

Chi non ha istituito la contabilità di magazzino, convenzionalmente inserisce nei bilanci di verifica le giacenze al 31 dicembre precedente – quando i pezzi presenti in magazzino erano stati contati fisicamente e poi “prezzati” con una serie di calcoli altrettanto scomodi.

Nel frattempo, però, le rimanenze possono essersi modificate anche significativamente, rispetto al 31 dicembre precedente.

Questa variazione impatta direttamente sul risultato d’esercizio, ma nel bilancio di verifica non si vede. La si vedrà il 31 dicembre prossimo venturo – quando sarà tardi per intervenire. O peggio, la si vedrà a tra febbraio e marzo dell’anno dopo, quando il bilancio si avvicinerà ad essere definitivo.

E dunque, il nuovo articolo 2086 del Codice Civile richiede un assetto organizzativo amministrativo e contabile che rilevi tempestivamente l’eventuale crisi d’impresa.

Chi conosce i costi fissi e variabili della propria impresa riesce addirittura a fare previsioni future, anche se di breve periodo. [Chi volesse fare previsioni più a lungo termine e più affidabili, dovrebbe istituire un vero e proprio budget mensile dei costi e dei ricavi, di cui non parlo perché fa parte delle modifiche utili ma complesse].

Chi invece si limita alla contabilità tradizionale, a “costi ricavi e rimanenze”, non riesce neppure a sapere con precisione cosa È GIÀ SUCCESSO dall’inizio dell’anno!

È chiaro che in questo caso siamo molto lontani dal rilevare tempestivamente l’eventuale crisi.

Dal punto di vista del risparmio finanziario

Come privati cittadini, siamo più sereni se il serbatoio dell’auto è pieno.

Gli imprenditori hanno gli stessi motivi di prudenza del privato cittadino – per mantenere un magazzino sufficientemente elevato da garantire la produzione e le vendite anche in caso di temporanee interruzioni degli approvvigionamenti o picchi di richieste da parte dei clienti.

L’imprenditore, però, usa capitali in buona parte di altri (in primis banche e fornitori) e su questi finanziamenti deve normalmente pagare un costo, esplicito o occulto che sia.

Ecco allora che, se l’imprenditore impara a sopravvivere con meno scorte in magazzino, può risparmiare più di quanto non sembri.

La grande distribuzione “batte” sul prezzo i piccoli negozi proprio grazie ad un peso del magazzino enormemente più basso.

Gli ipermercati ricevono camionate di merce ogni giorno, ma poi la vendono nel giro di ore o al massimo di giorni. Per mantenere l’assortimento, i piccoli negozi devono tenere in magazzino l’equivalente magari di un mese di vendite. Spesso, gli ipermercati riescono a tramutare la merce in denaro molti giorni prima di quando la pagheranno al fornitore. In questi casi, più l’ipermercato vende, più si crea una disponibilità finanziaria – temporanea ma che si rinnova costantemente e quindi frutta un interesse. Per il piccolo negozio, invece, è il contrario: per aumentare le vendite deve “congelare” nel magazzino quantità crescenti di denaro.

Nel campo della produzione di beni, i Giapponesi hanno insegnato al resto del mondo i principi e i vantaggi della “lean production“, che è un concetto ricco di sfaccettature, ma che nella sostanza consiste nell’organizzare la logistica come un orologio svizzero.

Studiando i problemi, si può arrivare quasi ad eliminare gli imprevisti e anomalie. A quel punto si può (quasi) eliminare il magazzino. Nelle imprese di produzione più perfezionate, i fornitori entrano in stabilimento e portano i loro prodotti direttamente a fianco della linea di produzione, dove saranno utilizzati in poche ore.

Quando i magazzini erano enormi e le merci potevano viaggiare più lentamente, la ferrovia era un sistema di trasporto valido.

Con magazzini più piccoli, dove le merci ruotano più rapidamente, è aumentato il trasporto su autotreni, che è più costoso ma più rapido. I risparmi sul magazzino giustificano il maggior costo di trasporto.

Ai tempi del crollo del ponte Morandi, abbiamo tutti sentito le statistiche sull’aumento di peso che sopportano le autostrade. I grandi magazzini di una volta si sono in parte trasferiti sui magazzini mobili costituiti dai camion.

Far dimagrire il magazzino porta a tali risparmi, che diventa conveniente addirittura utilizzare i furgoni. Una casa automobilistica asiatica che venda in Europa, per esempio, un tempo avrebbe istituito uno o più magazzini per i pezzi di ricambio in ogni paese europeo. Oggi costruisce, per esempio, un centro super-efficiente a Rotterdam e poi fa viaggiare i pezzi in aereo o su camion. I risparmi sono tali, che ogni tanto può permettersi di far viaggiare tutta la notte un furgone con un pezzo solo, per attraversare l’Europa e rimediare ad un’emergenza.

Come si realizza in pratica

Il codice a barre (ovviamente abbinato a programmi informatici) è stato lo strumento di maggior rilevanza, per permettere di tenere sotto controllo il magazzino.

Qualche decina di anni fa era uno strumento molto costoso, che potevano permettersi in pochi. Oggi è diventato una “commodity“, ovvero un bene che si vende a poco più del costo.

La compartimentalizzazione fisica del/dei magazzini può sembrare un tema accessorio, ma non lo è. Senza di essa, in caso di fretta (e oggi si è SEMPRE di fretta) si pesca dal magazzino rinviando a dopo la contabilizzazione. Che poi non avviene.

Le aziende più grandi hanno già integrato la gestione del magazzino con l’attività amministrativa. Per loro, la fattura elettronica è stata un problema relativo, perché già imponevano ai loro fornitori fatturazioni informatiche, che permettessero di gestire in automatico i carichi di magazzino, oltre che le operazioni della contabilità generale.

Ovviamente, tutto ciò vale per chi è costretto a dover “far girare” molti beni fisici.

Una crescente quota di settori economici tratta beni immateriali o servizi.

Per questi, istituire una contabilità di magazzino non porta risparmi e serve anche relativamente a poco, per rilevare tempestivamente la crisi.

E’ in preparazione un video, dove parlo di alcuni di questi argomenti. Sarà pubblicato sul mio sito. Si intitolerà “Magazzino e contabilità”.

Questo articolo conclude questa serie sulle misure minime per rilevare tempestivamente l’eventuale crisi d’impresa.

Grazie dell’attenzione.

Torino, 5 aprile 2019.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (13)

LE PREVISIONI FINANZIARIE

Dopo la revisione del piano dei conti, la seconda iniziativa che l’imprenditore può prendere, per rilevare tempestivamente la crisi d’impresa (e per DIMOSTRARE di averlo fatto), è di costruire e tenere aggiornato un prospetto con le previsioni finanziarie.

Commercialisti e consulenti fiscali ragionano sulla base del bilancio, ma in realtà il presupposto legale del fallimento non è il patrimonio netto negativo, bensì l’insolvenza, ovvero l’incapacità di adempiere alle obbligazioni in modo “normale” (senza svendere i beni o barattarli).

Patrimonio netto e capacità di adempiere sono concetti collegati, ma non coincidono.

Il patrimonio netto negativo indica il fatto che (ai valori di bilancio) l’impresa NON SARÀ IN GRADO di soddisfare tutti i creditori.

Il mancato pagamento, però, potrebbe avvenire in un futuro non immediato. Tutto dipende dal grado di liquidità dell’attivo e del passivo. Se l’attivo è liquido e il passivo è a lungo termine, l’insolvenza potrebbe essere lontana di mesi o addirittura di anni (nel qual caso l’impresa potrebbe risollevarsi).

Addirittura, un’impresa con patrimonio netto negativo, che però ha ricevuto garanzie dalla casa madre e che per questo motivo continua a mantenere sufficienti fidi bancari, può continuare ad operare – con molte preoccupazioni ma senza rischi immediati. E’ successo in questo millennio alla più grande partecipata della massima impresa industriale del nostro paese. Alla fine, è uscita dalla crisi senza fallire.

Al contrario, un’impresa che ha investito in immobilizzazioni difficili da vendere (per esempio immobili industriali), finanziandoli con debiti a breve scadenza, può anche conservare un patrimonio netto positivo, ma se non riesce a pagare i fornitori e a ripagare le banche, non avrà modo di contrastare una richiesta di fallimento.

In definitiva, tenere sotto controllo la finanza aziendale – e non solo il patrimonio – è una necessità. Ogni imprenditore lo sa.

Il prospetto delle previsioni finanziarie è concettualmente facile:

  1. si inizia dalla posizione di cassa di oggi (il saldo netto dei conti correnti, dei conti anticipi e del denaro in cassa – con il segno negativo se dobbiamo denaro alle banche);
  2. si sommano, con il segno meno, tutte le uscite previste nel periodo (tipicamente il mese). Qui ci saranno le fatture fornitori scadute e a scadere nel mese, le retribuzioni, le imposte e i contributi del mese, gli interessi e i rimborsi previsti sui prestiti (rate di mutui, per esempio);
  3. si sommano poi tutte le entrate previste nel medesimo periodo. Normalmente, si tratta di fatture attive già emesse e da emettere, che si prevede saranno pagate o che saranno oggetto di nuovi anticipi da parte delle banche.
  4. La somma algebrica di questi tre gruppi di voci costituisce la posizione di cassa di fine periodo. Se è negativa, occorre verificare che l’importo non ecceda i fidi bancari disponibili. Se li eccede, vorrà dire che qualcuno – tra i fornitori, Erario, Inps e banche – non potrà essere pagato. I dipendenti sono gli ultimi a non venir pagati.

L’esempio si riferisce al mese in corso, ma il saldo di fine mese costituisce la posizione di cassa iniziale del mese prossimo. Nel mese prossimo si ricalcolano i raggruppamenti 2) e 3) di cui sopra – ovviamente riferiti a pagamenti ed incassi di QUEL mese.

Poi si procede nei mesi successivi, se possibile fino a fine anno, se no fino a quando è significativo. Infatti, nei mesi più prossimi si può conteggiare con ragionevole precisione incassi e pagamenti delle fatture già emesse e ricevute. Per i mesi più lontani, invece, occorre fare delle previsioni sulle fatture che emetteremo e sugli acquisti che faremo. È evidente che il grado di affidabilità delle previsioni diminuisce, più ci si spinge avanti nel tempo.

Per organizzare il tutto, è più facile predisporre un foglio Excel.

La scomodità di questa procedura è il suo aggiornamento: o si mette mano al prospetto ad ogni incasso / pagamento (cosa quasi sempre improponibile), o ci si accontenta di ricominciare da capo almeno una volta al mese.

In teoria, la contabilità dovrebbe fornire buona parte dei dati e rendere automatico l’aggiornamento. In pratica, quando (molti anni fa) guardavo questi tabulati, li trovavo illeggibili, tanto era sgradevole la grafica utilizzata e tanto erano criptiche le descrizioni.

È probabile che oggi i software gestionali offrano risposte migliori, anche se io non li conosco. A dicembre del 2018, l’amico e Collega Matteo Ferrantino mi ha invitato alla presentazione di un software gestionale in continuo sviluppo che promette l’aggiornamento senza sforzo delle previsioni finanziarie. Ne riparlerò nel post finale che concluderà questa serie.

Comunque sia, per poter dimostrare di aver utilmente formulato delle proiezioni finanziarie, occorre conservare (in formato elettronico o, meglio, su carta) una serie regolare di aggiornamenti. In Excel si possono duplicare i vecchi “fogli” (da conservare, anche se danno fastidio) e poi modificarli dopo averne cambiato il nome.

In caso di fallimento, i vecchi fogli – con un saldo finale compatibile con i fidi dell’impresa – dimostreranno l’esistenza di un ulteriore sistema di rilevazione tempestiva della crisi e attesteranno la buona fede dell’amministratore, quando ha deciso che vi erano le risorse finanziarie per continuare l’attività.

Ho già scritto più volte che i miei suggerimenti costituiscono una proposta MINIMA, adottata la quale è poi possibile passare a procedure più approfondite e (normalmente) più costose in termini di tempo e di denaro.

Per dare un’idea del grado di raffinatezza possibile nelle previsioni finanziarie, ricordo che quando ero all’università, venne a tenere una conferenza Luigi Arcuti, presidente dell’allora San Paolo IMI. Le banche vivono di equilibrismo tra provvista a basso costo, soggetta a prelievo immediato, e impieghi che per essere remunerativi devono essere vincolati nel tempo. Le banche non possono però rimanere a secco di liquidità, pena il disastro per sé e per l’intero sistema dei pagamenti. Orbene, Arcuti spiegava che nella sua banca, la gestione della tesoreria era migliorata da quando era stata affidata niente di meno che a INGEGNERI IDRAULICI.

Non credo che nessuna piccola impresa potrà assumere ingegneri idraulici, neppure dopo l’arrivo del Codice della Crisi e dell’Insolvenza.

Nel campo del controllo finanziario (ma solo delle Srl e delle Spa), una seconda iniziativa facile è quella di farsi spiegare in dettaglio, dal proprio commercialista, il significato del “Rendiconto Finanziario” allegato al bilancio di esercizio. Tanti imprenditori pagano il servizio di redazione del Rendiconto (che è diventato obbligatorio dal 2015), ma poi non ne comprendono il significato. A volte neppure lo guardano. Questo è un peccato, perché il Rendiconto dice molto di come è andata la fisarmonica degli incassi e dei pagamenti dell’anno precedente.

Per chi volesse provare a predisporre autonomamente un foglio Excel con le previsioni finanziarie, consiglio di comprare un originale libricino con un titolo strano:

P = Σ (S + R)

Lo ha scritto Pietro Ricca, un consulente d’azienda (e mio amico).

Il titolo vuole dire “Progetto=sommatoria di semplificazioni + risparmi”. Questa è anche la stringa di testo che dovete digitare, per trovare il libro su Amazon.

Il libro è destinato agli imprenditori poco esperti di finanza (per esempio “la latteria di mia nonna”, dice l’autore).

Chi (come me) ama la semplicità, leggerà con entusiasmo frasi come:

“Il metodo di pensare «semplice» cambia completamente il sistema di valutazione aziendale”

e capitoli intitolati  “Tecnologia senza eccessi”  o  “Criterio dell’immediatezza”.

Molti dei libri in circolazione sul controllo finanziario sono traduzioni di testi americani. Negli Stati Uniti, però, i crediti verso clienti sono modesti (i tempi di pagamento sono rapidi) e le banche difficilmente concedono fidi alle piccole imprese. Il risultato è che questi testi, seppur raffinati, non sono adatti alla nostra realtà.

Meglio cominciare dal libricino di Pietro.

 

Continua. Domani la quattordicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (12)

LAVORI SOTTOCOSTO SU COMMESSA: PERCHE’?

Dagli anni ’60 agli anni ’80 (con una sola frenata nel 1974) l’Italia ha vissuto una stagione economica quale quella della Cina di oggi: redditi in spettacolare aumento, migrazioni interne mai viste prima, inquinamento.

Quasi tutti gli Italiani hanno guadagnato qualcosa. Qualcuno ha guadagnato molto più di altri. Tra questi ultimi, ci sono gli imprenditori del settore dell’impiantistica.

L’aumento dei consumi trascina con sé l’aumento della richiesta di beni strumentali (fabbriche). Se è tutta l’economia che sale, allora non bastano le fabbriche, ma ci vogliono anche palazzi, strade, aerei, edifici, ponti, linee elettriche e impianti telefonici.

I beni strumentali durano a lungo nel tempo e costano molto più del valore di quanto annualmente producono.

Questo fa sì che per aumentare di “x %” la produzione di beni di consumo, occorra temporaneamente aumentare la costruzione di beni strumentali di molto più dell’ “x %”.

Gli economisti chiamano questo fenomeno il “moltiplicatore”.

A partire dagli anni ’60, in Italia il “moltiplicatore” ha viaggiato come un treno.

Costruivamo dighe in Argentina e porti in Iran; fabbriche di auto in Unione Sovietica e piattaforme petrolifere marine ovunque. E poi il mercato interno: gli impianti petrolchimici sono iniziati a Marghera e Ravenna, ma poi hanno costellato la costa siciliana. I 760 km dell’Autostrada del Sole sono stati costruiti in poco più di 3.000 giorni, un chilometro ogni 4 giorni – nonostante i ponti e le gallerie dell’attraversamento appenninico e nonostante che i partiti dell’opposizione fossero contrari al progetto. Cornigliano prima e il polo siderurgico di Taranto, dopo, erano acciaierie che reggevano qualunque concorrenza (e allora, in Europa, l’acciaio era una cosa seria: l’attuale Unione è nata proprio dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio).

E poi lo spostamento di popolazione: dal Sud verso il Nord, ma anche dalla montagna e dell’interno verso la pianura e verso la costa. Le città meridionali di mare sono cresciute quasi quanto le città industriali del Nord. Le abitazioni dei borghi impervi venivano abbandonate, ma nei nuovi quartieri delle città in crescita mancavano case, scuole, strade, fognature, illuminazione e linee telefoniche.

Tutte cose che vengono fornite dalle imprese che lavorano su commessa. La richiesta di lavori fatti in fretta e (se possibile) bene era tale che non si badava a spese. I margini di guadagno erano enormi e anche le retribuzioni dei dipendenti erano più alte della media. Un saldatore capace di cavarsela da solo in trasferta, o un capocantiere, o un montatore meccanico venivano contesi con rilanci di centinaia di migliaia di Lire al mese (al tempo ci compravi un motorino).

Chi ha letto “La chiave a Stella” di Primo Levi conosce il clima economico e sociale che si viveva allora.

All’inizio, il settore dei lavori su commessa era dominato dalle grandi imprese. Dopo l’aumento del costo del lavoro dei primi anni ’70, sono arrivate a frotte imprese sempre più piccole – fino al muratore o al saldatore che si licenziavano e prendevano la partita Iva come artigiani. Nessun settore, più dei lavori su commessa, permetteva una tale mobilità sociale: da “proletario” a “capitalista” in cinque / dieci anni.

Tutto questo, per dire che il settore dei lavori su commessa è arrivato pingue e “viziato” all’appuntamento con il calo dei tassi di crescita.

È allora (intorno agli anni ’90) che il settore ha escogitato un meccanismo subdolo ma efficace, per sopravvivere a fronte della pressione al ribasso delle basi d’asta.

I lavori venivano deliberatamente assunti a prezzi bassi – sempre più bassi, mano a mano che il tempo passava. Dove non bastava l’accordo spartitorio, per tenere lontano un concorrente dalla propria “riserva di caccia” si poteva anche assumere l’impegno di lavorare sottocosto.

Al cliente finale veniva detto che si era più efficienti del concorrente, ma la verità era un’altra.

Le verità era che si puntava a recuperare la perdita (con gli interessi), in sede di VARIANTI IN CORSO D’OPERA.

Se la progettazione non era più che perfetta, nel corso dei lavori il cliente si accorgeva di aver bisogno di qualche modifica. A quel punto, però, il cliente non poteva più scegliere: poteva solo rivolgersi alla ditta che già stava eseguendo i lavori.

Chi ha comprato un alloggio “sulla carta” e ha poi provato a chiedere una modifica o un cambio di finiture rispetto al capitolato, sa di cosa parlo. Meno costa l’alloggio, più sono astronomici i costi della varianti richieste successivamente.

È come chiedere il prezzo dopo aver comprato: si è in balia del venditore.

Anche l’impresa che lavora su commessa, però, corre un rischio. Il lavoro di base, a margini risicati o negativi, è una certezza. La variante in corso d’opera, remunerativa, è invece solo una speranza.

Questo “trucco” ha reso molto per decenni, ma ora anch’esso è superato.

I committenti – pubblici e privati – hanno imparato il gioco e ora non si fanno più ingannare.

Come fanno? Progettano meglio e poi soprattutto frazionano i lavori in appalti più piccoli (e più facili di controllare), che si incastrano l’uno nell’altro ma che sono giuridicamente autonomi. In caso di problemi, il committente non deve più ricominciare da zero (che era l’aspetto improponibile del vecchio sistema), ma ci si può raccordare all’ultimo segmento di lavoro che è stato completato.

Quelle imprese di lavori su commessa, che avevano esagerato con il sottocosto, giocando d’azzardo sulle varianti in corso d’opera, sono spesso fallite nell’ultimo decennio.

Tutto questo, richiamando il tema del controllo di gestione e dei costi fissi e dei costi variabili.

Il controllo di gestione obbligatorio farà emergere le situazioni, come quelle appena viste, in cui i ricavi che non coprono neppure i costi variabili. L’azzardo degli amministratori sarà messo a nudo e scatterà la loro responsabilità patrimoniale personale.

Da domani, torniamo agli altri miei “suggerimenti minimi” per rilevare tempestivamente la crisi.

 

Continua. Domani la tredicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (11)

COSTI FISSI E VARIABILI: FINE DEL PROCRASTINARE

Chi tiene sotto controllo costi fissi e costi variabili, viene a perdere una delle possibili scuse per continuare ad operare distruggendo ricchezza.

Questo può sembrare un problema, ma è proprio quello che vuole la nuova legge.

Oggi, il segnale della crisi è dato dal patrimonio netto negativo. Anche quando il patrimonio è perso durante l’anno, gli amministratori fanno finta di essersene accorti solo con il bilancio del 31 dicembre. Poi indicono l’assemblea a giugno dell’anno dopo, ma la fanno andare deserta (anche quando sono loro stessi i soci!). A settembre si ritrovano e per prendere appuntamento dal notaio per la straordinaria vanno a novembre. A gennaio del terzo anno (se va bene) chiedono il fallimento.

In pratica, l’insolvenza viene riconosciuta quasi due anni dopo da quando è nata. Nel frattempo, si è accresciuta come un cancro.

Controllando costi fissi e variabili, invece, le premesse economiche per il fallimento emergono molto prima.

Per esempio, una pizzeria che abbia costi fissi di € 3.000 al mese e che venda una pizza ad € 15, con € 5 di costi variabili per ogni pizza, sa che deve vendere almeno 300 pizze al mese per non diventare più povera.

Se in un mese ne ha vendute solo 250, squilla il primo allarme.

Per colmare il deficit, il mese dopo deve venderne almeno 350, oppure si trascinerà il “buco” fino a fino anno.

È però un vantaggio saperlo fin da subito. Così come è un vantaggio sapere come si può reagire:

  • se la riduzione delle ordinazioni a 250 / mese diventa permanente, è utile sapere che si può recuperare aumentando il prezzo ad € 17;
  • oppure, che si può provare a risparmiare 2 Euro sul condimento di ciascuna pizza.

Se tutte le vie d’uscita si ritengono impraticabili, si può pensare alla cessazione di attività, o alla vendita a terzi. È ben diverso, decidere questo PRIMA di aver perso il patrimonio netto.

Solo la conoscenza dei costi fissi e di quelli variabili, permette questi ragionamenti.

Il tutto mese per mese, senza aspettare il bilancio annuale – quando magari sarà troppo tardi per la cura, perché l’impresa nel frattempo si è dissanguata.

Chi pensa che siano rari i casi di imprese che non coprono neppure i costi variabili, si ricordi di tutte le volte che ha visto un cantiere (pubblico o privato) abbandonato, con gru e mezzi d’opera ad arrugginire o venir saccheggiati. Nel campo degli appalti – ma più in generale in tutti quelli delle opere su commessa, dai sarti alle costruzioni navali, passando per l’edilizia, le riparazioni e l’impiantistica – il fallimento molto spesso è determinato non dai costi fissi, ma dal lievitare dei costi variabili oltre le previsioni.

Anzi, così come lo conosco io, il settore degli appalti e delle costruzioni meccaniche ed edili su commessa, in Italia è (o era fino a ieri) STRUTTURALMENTE organizzato per lavorare sottocosto.

Magari domani apro una parentesi rispetto al controllo di gestione e ne faccio un post a parte.

 

Continua. Domani la dodicesima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (10)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: PERCHÉ SONO IMPORTANTI PER L’INSOLVENZA

Indipendentemente dalla sua utilità per gestire l’impresa, la classificazione dei costi (ripartiti tra fissi e variabili) fornisce al gestore dell’impresa un ottimo strumento per dimostrare (ad insolvenza dichiarata) di essersi organizzato per rilevare tempestivamente la crisi.

Sì, perché la situazione di perdita di bilancio (che dopo un po’ azzera il patrimonio netto e prima o poi si traduce nell’impossibilità di pagare anche solo i debiti correnti) presenta due possibili sfaccettature che richiedono interventi del tutto opposti:

  1. se l’impresa in crisi copre tutti i costi variabili, per risollevarsi deve “solo” aumentare le vendite;
  2. se l’impresa in crisi non copre neppure i costi variabili, deve fare il contrario, ovvero FERMARE l’attività – scegliendone una redditizia se ce l’ha a portata di mano, se no è meglio che vada in liquidazione.

Torniamo all’esempio di due giorni fa del rematore contro-corrente.

Nel caso n. 1, il rimedio è di remare più vigorosamente. Poi magari, il rematore sta già impegnando tutte le sue energie, e allora anche lui dovrà rassegnarsi ad abbandonare il campo, magari cedendo il posto a un collega più forte.

Nel caso n. 2, invece, la barca sta procedendo al contrario e ogni colpo di remo ACCELLERA la corsa nella direzione della corrente – quando già si sa che a valle c’è una cascata a strapiombo. In questo caso, occorre girare la barca, prima ancora di riprendere a remare. Se il rematore non è più che esperto, oltre che forte, il suo dovere è quello di puntare alla riva prima di sfracellarsi (e di sfracellare gli altri marinai e chi gli ha imprestato i soldi per comprarsi la barca).

L’aver istituito una contabilità che evidenzi separatamente costi fissi e costi variabili sarà la prima giustificazione dell’amministratore dell’impresa insolvente.

Chiaramente, però, se poi l’amministratore non segue quello che la contabilità gli dice (soprattutto se versa nella scomoda situazione n. 2) avrà comunque problemi. Non però quello di essere incolpato di non aver istituito uno strumento di rilevazione della crisi.

Idem per chi versa nella situazione n. 1, anche se in questo caso il nuovo piano dei conti sarà ancora più utile, perché la dimostrazione di un “margine di contribuzione” giustificherà (almeno inizialmente) l’amministratore che ha continuato a lavorare in perdita.

Secondo me, l’esistenza di una ripartizione dei costi tra fissi e variabili può essere un’utile dimostrazione di aver istituito un sistema di controllo ANCHE nei casi (visti ieri) di imprese multi-prodotto o con ricarichi diversificati.

È vero, in questi casi la contabilità non fornisce elementi utili per indirizzare la modifica del mix di prodotti / ricarichi. Il dato generale sulla copertura o meno dei costi variabili, però, rappresenta comunque un’indicazione della situazione di fatto A PARITÀ DI MIX DI PRODOTTI / RICARICHI.

Nell’immediato, è comunque un dato utile.

 

Continua. Domani la undicesima parte.