L’altra concessione

Il crollo del ponte Morandi, nel 2018, ha portato all’attenzione di tutti gli italiani il tema delle concessioni

Lo Stato può decidere che, pur rimanendo pubblico, un bene si riveli più utile alla collettività, se gestito – per un certo tempo – da un privato “convenzionato”.

Lo Stato potrebbe lasciare libere le spiagge che circondano la nostra penisola, ma ritiene più utile che vengano mantenute pulite e ben organizzate da gestori privati, che oltretutto pagano allo Stato un canone (in passato simbolico, oggi un po’ più elevato). La controversia che riguarda le concessioni delle spiagge (controversia in cui entra anche l’UE e l’insoddisfazione dei consumatori per i prezzi elevati che i concessionari applicano al pubblico) bene illustra l’importanza delle concessioni.

Sì, perché oltre alle spiagge, lo Stato concede (o concedeva) ai privati la gestione di beni ancora più “strategici”: la raccolta delle imposte, le onde radiotelevisive, la rete autostradale, la rete telefonica, la rete ferroviaria, la rete di trasporto del gas, le risorse del sottosuolo (dagli idrocarburi terrestri e marini alle cave di pietra, ghiaia e sabbia). La rete idrica fa capo agli enti pubblici territoriali, ma il discorso non cambia. La rete elettrica era privata fino alla nazionalizzazione del 1962 (forse il traguardo  maggiore del “centrosinistra”).

Fino agli anni ’90 le imprese che prendevano in concessione i beni pubblici erano anch’esse controllate dallo Stato. La concessione trasferiva potere dai dirigenti del Ministeri agli amministratori delegati delle imprese di Stato (o delle società a partecipazione statale), ma il Governo era comunque in grado di controllare entrambe le categorie.

Con la privatizzazione di Telecom, si è inaugurata la stagione dell’ingresso dei privati nella gestione dei beni pubblici. In parallelo, le norme antitrust europee hanno introdotto la concorrenza (spesso transfrontaliera) in settori un tempo protetti.

La posta in gioco può essere enorme, anche solo per la gestione dei beni, senza modificarne la proprietà. Il caso delle autostrade è emblematico. Dopo il crollo del ponte Morandi si è tornato a parlare di un libro uscito anni prima e quasi ignorato: “I signori delle autostrade“. Un gruppetto di docenti universitari di materie economiche aveva documentato, anche numericamente, come lo Stato si è dato la zappa sui piedi, prima privatizzando le società concessionarie autostradali (ad un prezzo basso, perché i bilanci mostravano utili modesti) e poi concedendo significativi aumenti tariffari, che hanno tonificato i bilanci. Il danno per lo Stato è andato a beneficio degli acquirenti delle società concessionarie (che oltretutto hanno effettuato pochi investimenti in manutenzione e miglioramento, come il caso ponte Morandi sembra indicare).

Per quanto importanti siano le autostrade, le Ferrovie dello Stato lo erano (e lo sono) ancora di più.

Fino al 1986, lo Stato gestiva direttamente le ferrovie. L’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato era “autonoma” solo in alcuni aspetti della gestione contabile, ma aveva sede fisica all’interno del ministero dei Trasporti, era presieduta dal Ministro dei Trasporti ed era controllata contabilmente dalla Corte dei Conti.

Nel 1986 l’Azienda Autonoma diventa Ente Ferrovie dello Stato (al pari dell’Ente Nazionale Energia Elettrica, ENEL). Si susseguono poi una serie di passaggi fino ad arrivare al 1992, quando la forma giuridica diventa totalmente privatistica: una Società per azioni come holding di vertice, con tante società operative da essa controllate. La holding di vertice oggi si chiama Ferrovie dello Stato Italiane Spa (ma ha cambiato più volte denominazione), mentre società controllate di gran lunga più importanti sono Rete Ferroviaria Italiana Spa (proprietaria e gestore dei binari, delle stazioni e dell’infrastruttura) e Trenitalia (proprietaria e gestore dei treni). RFI svolge un servizio pubblico ed è obbligata a mettere a disposizione la rete a tutti gli operatori tecnicamente qualificati che lo richiedono. Trenitalia è una società di trasporti in libera concorrenza con altre imprese e non può ricevere aiuti di Stato.

Vi è un aspetto della trasformazione in Spa dell’Azienda Autonoma delle Ferrovie dello Stato, che non è stato portato all’attenzione del grande pubblico. Ha però un grande rilievo: la nuova Spa (e in particolare RFI) non è diventata titolare della sola concessione, ma è diventata proprietaria dell’infrastruttura.

La giustificazione logica di questa scelta sta nel fatto che l’Azienda Autonoma aveva ricevuto in concessione d’uso una parte trascurabile della rete ferroviaria (quella che esisteva nel 1906, quando i privati hanno venduto allo Stato – allo scadere della convenzione – quanto avevano costruito. Le società Bastogi e Mittel hanno continuato a fare affari per un secolo, con questa dotazione finanziaria). Il resto della infrastruttura ferroviaria è stato costruito o incrementato dall’Azienda Autonoma, dopo il 1906.

È anche vero, però, che l’Azienda Autonoma di fatto era lo Stato e che i suoi investimenti sono stati finanziati non dai suoi utili (che non sono mai esistiti), ma dall’Erario.

Nell’immediato, lo Stato rimane proprietario dell’infrastruttura, perché ha il 100% delle azioni di RFI, tramite FSI. Un domani che FSI fosse privatizzata, però, lo Stato perderebbe la rete, oltre che la concessione. Ora che le ferrovie generano utili (soprattutto grazie all’altra velocità) la privatizzazione è diventata una possibilità concreta.

Con le autostrade era andata diversamente, perché era stata privatizzata solo la concessione del loro utilizzo, non il bene autostrade in sé.

A giudicare dalla passione con cui si discute l’apertura alle società di capitali (anche straniere) della gestione delle spiagge, se ne trasferisse la proprietà, per sempre, ai gestori stessi, è immaginabile una sollevazione popolare.

Per le Ferrovie dello Stato è successo, o quando meno è stato un compiuto un passo irreversibile in questa direzione. Nessuno sembra essersene accorto.

Nell’ambito del processo sulle responsabilità del disastro ferroviario di Viareggio, ho studiato a fondo il mondo delle ferrovie italiane, scoprendo fatti – come questo – che non conoscevo. Il mio lavoro è stato commentato estensivamente nelle sentenze del Tribunale di Lucca, della Corte d’Appello di Firenze del 2017 (commentata qui) e della Cassazione 2021 (commentata qui).