Raccolta degli articoli editi dallo studio su vari argomenti inerenti l’attività

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (9)

UN’ESPERIENZA PRATICA, CON MONITO FINALE

Queste considerazioni possono sembrare astruse, ma la prima volta che ho utilizzato il concetto di punto di pareggio in un caso pratico, l’effetto è stato dirompente.

Un cliente gestiva un ‘attività di commercio con numerosi dipendenti e miliardi di Lire di vendite.

Il cliente non era soddisfatto dei risultati e mi ha chiesto un parere “spot“. Non sapeva cos’era la contabilità dei costi, ma nel commercio è sufficiente la contabilità generale: l’acquisto di merci è l’unico costo variabile; tutto il resto sono costi più o meno fissi. Il cliente era sicurissimo del ricarico medio che applicava.

Utilizzando queste premesse, costruisco il grafico del punto di pareggio e gli dimostro che (al ricarico teorico) le vendite che il negozio realizzava, avrebbero dovuto fruttare un decorosissimo utile e non invece la perdita che da un po’ di anni si ripeteva.

A questo punto gli ho detto: o il ricarico effettivo è decisamente inferiore a quello che si crede (magari a causa dei saldi), oppure … qualcuno ruba merce dai magazzini. In quel momento, quest’ultima idea risultava impensabile.

Ho suggerito un sistema di rilevazione dei carichi e scarichi di magazzino con codici a barre (in allora ancora una novità) e ho segnalato un dirigente industriale in pensione che avrebbe potuto seguirne l’implementazione. La curiosità iniziale è diventata scetticismo quando sono arrivati i preventivi di spesa. Oltretutto, i soci di minoranza che lavoravano in azienda mugugnavano fin dall’inizio.

Dopo anni ho incontrato casualmente l’imprenditore e mi ha detto che il negozio era stato chiuso (con sacrifici personali dei soci per evitare il fallimento) e che nel trambusto finale, diversi dipendenti avevano raccontato di carichi di merce che venivano trasferiti su altri furgoni, invece che venire scaricati in magazzino.

Senza (in allora) esperienza pratica, e solo grazie al grafico del punto di pareggio, io già l’avevo intuito.

Però attenzione: costruire il grafico del punto di pareggio partendo dalla contabilità generale (migliorata solo separando costi fissi e costi variabili) è efficace per chi ha un solo prodotto o servizio. Oppure per chi esercita il commercio con ricarichi più o meno uguali. O ancora, per chi vende servizi con predominanza di costi fissi.

Per chi fabbrica più prodotti, o per chi vende beni e servizi con ricarichi molto diversi, la semplice separazione dei costi tra fissi da quelli variabili offrirà un aiuto modesto nella guida dell’impresa.

Queste aziende più complesse, non si possono accontentare di “vendere di più”, ma devono anche conoscere quali sono le linee di business poco remunerative (da abbandonare) e quali quelle remunerative (sulle quali impegnarsi). La contabilità generale non fornisce quasi mai questi dati, neppure quando si separano i costi fissi dai variabili.

In ogni caso, rivedere il piano dei conti comporta il vantaggio formale (“far vedere di aver fatto”), così come vedremo domani.

Continua. Domani la decima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (8)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: A COSA SERVE TENERLI SEPARATI

Dimentichiamo per un attimo tutte le complicazioni, approssimazioni ed errori che sono inevitabili la prima volta che i costi vengono suddivisi tra fissi e variabili.

Facciamo finta di essere arrivati – dopo anni di affinamenti progressivi e non poche spese – ad avere una contabilità dei costi che produce risultati del tutto affidabili.

A questo punto, io imprenditore che ho separato correttamente i costi fissi da quelli variabili, vengo a conoscere due dati preziosissimi:

  • quanto denaro perderei, se mantenessi aperta la mia impresa FERMANDO DEL TUTTO LE VENDITE (e se esiste fermando anche la produzione). Questa perdita è pari ai costi FISSI totali. Ovviamente, io non voglio affatto fermare vendite e produzione, ma il dato della perdita massima mi serve per metterlo a confronto con il punto successivo;
  • il secondo dato preziosissimo è quanto mi rende una vendita. Per arrivarci devo fare un piccolo ragionamento: il totale dei ricavi è facile da conoscere; confrontando questo totale, con il totale dei costi VARIABILI, vengo a conoscere il ricarico medio effettivo. Ad esempio: se in un anno ho venduto € 100.000 e i miei costi variabili sono stati € 80.000, vorrà dire che ogni Euro di vendite mi porta a casa 20 centesimi di “margine di contribuzione”.

Incrociando i due concetti si arriva a scoprire il “punto di pareggio”, ovvero il livello di vendite che mi permette di coprire tutti i costi fissi.

In altre parole: dato che ogni Euro di vendite mi frutta (nel nostro esempio) 20 centesimi, per quante volte dovrò portare a casa questi 20 centesimi, prima di aver coperto tutti i costi fissi?

Attenzione, però: questo importo che ho calcolato (la serie dei 20 centesimi, poi quintuplicati per conoscere l’ammontare in Euro delle vendite), coprirà solo i costi fissi e nulla di più. Per realizzare un utile, dovrò vendere UN PO’ DI PIÙ del punto di pareggio. Se venderò UN PO’ DI MENO del punto di pareggio, subirò una perdita.

Inserisco qui una rappresentazione grafica del punto di pareggio (tratta dal sito www.MarchegianiOnLine.net, una piccola miniera di documenti utili al commercialista).

Grafico

Lascio al Lettore collegare il grafico a quanto ho scritto, precisando solo che per “numero di pezzi” si può anche leggere “vendite in €“.

Se il collegamento diventasse difficile, offro questo esempio: il punto di pareggio è lo sforzo che deve fare un rematore contro-corrente, per restare fermo. Se il barcaiolo rema con più forza di quanto gli richiede il punto di pareggio, realizzerà un utile. Se rema con meno forza, arretrerà.

Fino a quando l’imprenditore non conosce l’ammontare delle vendite che portano al pareggio, remerà alla cieca, guardandosi intorno ogni momento, per capire se sta andando avanti o indietro.

Si può fare, e molti lo fanno. Ma c’è di meglio.

 

Continua. Domani la nona parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (7)

COSTI VARIABILI E COSTI FISSI: DOVE STA LA DIFFERENZA

Il concetto non è difficile: sono costi fissi tutti quelli che non variano al variare della produzione. Il riscaldamento di un ufficio, ad esempio, è un costo fisso, perché dove fa freddo tocca tenerlo acceso sia negli anni in cui in sala d’aspetto non c’è spazio per tutti, sia in quelli in cui i ragni fanno la tela sulle tastiere dei PC.

I costi variabili, invece, sono connessi al volume del prodotto o del servizio che viene venduto. Per il commerciante, le merci sono un classico esempio di costo variabile: più ne vende, più ne deve comprare – con un collegamento rigido tra vendite ed acquisti, con in mezzo a fare da polmone, solo il “magazzino”.

Purtroppo, molti costi sono semi-variabili. L’energia elettrica, per esempio, è un costo fisso per quanto riguarda l’illuminazione ed è variabile per quanto riguarda la forza motrice. All’interno della bolletta, poi, c’è un corrispettivo fisso per la potenza massima impegnata ed uno variabile per i kilowattora effettivamente consumati.

Le imprese che spendono molto di energia elettrica e che mantengono un controllo di gestione rigoroso, hanno contratti separati per l’energia elettrica destinata ad illuminazione e per quella destinata a forza motrice. Inoltre, ripartiscono il costo di ogni singola fattura elettrica su due voci: la componente fissa e quella variabile.

Il nostro imprenditore, alle prese con l’abc del controllo di gestione, nell’immediato non potrà arrivare a questi livelli di raffinatezza. Dovrà accontentarsi di attribuire la spesa elettrica ad una delle due categorie (fissa o variabile), a seconda che prevalga l’aspetto fisso oppure quello variabile.

L’imprenditore è il miglior giudice di queste cose, ma non è detto che neppure lui ci azzecchi infallibilmente. Dopotutto, il controllo di gestione serve proprio per aprire gli occhi dell’imprenditore sugli aspetti nascosti della sua impresa. In questo caso, emerge un limite della mia proposta, limite che ho riconosciuto fin dall’inizio: la proposta è meglio di niente, ma lascia ampi spazi a futuri miglioramenti!

L’altra grande voce di costo che genera dubbi è rappresentata dalla manodopera, il cui costo sale “a gradini” quando sale il fatturato e tende a rimanere fisso, quando invece il fatturato scende. Anche in questo caso, il nostro imprenditore si regolerà “a buon senso”, a seconda del ciclo in cui si trova (in aumento o in declino) e a seconda del peso dei contratti di lavoro a tempo indeterminato, rispetto ai vari contratti di lavoro flessibili o alla possibilità di ricorrere al conto-lavoro esterno. O magari anche a seconda della vicinanza alla pensione dei lavoratori.

Nel lungo termine, tutti i costi diventano variabili (il capannone può essere venduto, il personale stabile può essere ridotto bloccando in turnover). Vedremo in seguito che, almeno in prima battuta, conviene mantenere un approccio di breve termine, ovvero guardare solo fino al prossimo bilancio.

Separati in qualche modo i costi variabili da quelli fissi, il nostro imprenditore sarà in grado di dimostrare di aver fatto il primo e fondamentale passo verso il controllo di gestione.

L’ideale sarebbe di rivedere il piano dei conti PRIMA dell’inizio dell’anno. In quelle realtà in cui i movimenti contabili non sono molti, però, a marzo dovrebbe essere ancora possibile frazionare i soli “conti calderone” dei costi, ripartendoli su nuovi conti maggiormente dettagliati.

Separare costi fissi e costi variabili, invece, è possibile (anche retroattivamente) in qualunque momento dell’anno, perché basta aggiungere un codice a tutti i conti esistenti.

Di solito, i programmi di contabilità prevedono una gerarchia tra i conti a molti livelli. Le imprese più piccole sfruttano solo due o tre livelli di questa gerarchia. Per questo motivo, nei numeri di conto si vedono spesso sfilze di zeri che danno solo fastidio all’occhio.

Sfruttare maggiormente le potenzialità del programma di contabilità è già un segno di miglioramento gestionale.

 

Continua. Domani la ottava parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (6)

MIGLIORARE IL PIANO DEI CONTI

Questa è una mossa alla portata di tutti, che richiede poco tempo (mezza giornata?), non richiede esborsi di denaro, lascia una chiara traccia documentale, è subito utile dal punto di vista gestionale e servirà anche un domani, quando si volesse passare ad un controllo di gestione e ad una contabilità dei costi “come Dio comanda”.

La maggior parte dei piani dei conti vengono preparati dal commercialista “fiscalista”, nel momento in cui l’impresa viene costituita.

Nella mia esperienza, questi piani dei conti, progettati all’esterno, tendono ad essere accettabili solo a livello di conti dello Stato Patrimoniale e della sezione Ricavi del Conto Economico. Sui conti patrimoniali, i commercialisti sono tutti competenti. Sui conti dei ricavi, è l’imprenditore che spiega cosa gli serve (di solite Vendite Italia / Vendite Estero, e poi ancora Vendite Prodotto A, Vendite Prodotto B, ecc.).

I piani dei conti progettati all’esterno tendono invece ad essere inadeguati a livello della sezione COSTI del Conto Economico.

Tra i costi, si trova spesso un dettaglio esasperato su quelle voci che servono o servivano per la dichiarazione dei redditi e per gli studi di settore. Per esempio, si trovano:

  • conti intestati ai costi dei telefoni fissi, separati da quelli intestati ai costi dei telefoni cellulari;
  • conti molto numerosi e dettagliati, intestati ai singoli diversi costi delle automobili (pneumatici, riparazioni, carburante, bollo, assicurazione). Le stesse voci sono poi ripetute in modo distinto per gli autocarri;
  • conti intestati ai rimborsi spese dei dipendenti, separati a seconda che le spese siano sostenute nel comune sede di attività piuttosto che in altri comuni.

Dove invece non ci sono esigenze fiscali o di bilancio, si trovano spesso voci di una genericità assoluta, tipo:

  • “prestazioni di servizi”;
  • “acquisti di beni”;
  • “spese indeducibili”.

A distanza di anni, non si riesce più a ricostruire cosa davvero contengano questi conti «calderone», a meno di non prendere in mano le fatture (cosa quasi sempre improponibile, per il Curatore, se non per singole fatture specifiche).

Orbene, l’imprenditore oculato dovrebbe oggi riesaminare criticamente la sezione “costi” del suo piano dei conti. Magari facendosi assistere dal suo fiscalista, ma senza delegargli la revisione in autonomia.

I conti dettagliati che servono al commercialista possono essere mantenuti, ma occorre aggiungere nuovi conti dettagliati. In particolare, occorre :

  • creare nuovi conti dettagliati, relativi a TUTTE quelle singole categorie di spese che influiscono significativamente sul prezzo finale del prodotto / servizio che viene prodotto o anche solo venduto;
  • attribuire un ulteriore codice a tutte le voci di costo (quelle già esistenti e quelle che sono appena state create), in modo da evidenziare e separare:
  1. i costi FISSI;
  2. i costi VARIABILI.

 

Continua. Domani la settima parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare? (5)

UN INCISO SULLE REGOLE DEL GIOCO

Prima di illustrare in dettaglio i miei tre suggerimenti, aggiungo tre annotazioni:

  1. a differenza della contabilità generale (che deve rispondere a “principi contabili” ben codificati), la contabilità dei costi è libera, nel senso che viene organizzata a seconda delle esigenze di ciascuna impresa. E non solo: c’è sostanzialmente un modo solo di tenere (correttamente) la contabilità generale, ma ci sono tanti modi per tenere la contabilità dei costi, a seconda del grado di dettaglio che si vuole raggiungere. Questa costruzione “su misura”, tra l’altro, spiega PERCHÈ impiantare una contabilità industriale spesso costa di più che non impiantare una contabilità generale;
  2. mentre la contabilità generale deve quadrare “al centesimo”, la contabilità dei costi molto spesso si deve accontentare di approssimazioni, magari anche grossolane. Una contabilità dei costi perfetta, infatti, arriva a costare più dei benefici che apporta.
  3. è difficile arrivare subito ad una contabilità dei costi efficace, già al primo tentativo. Spesso è necessario intervenire in un secondo tempo con rifacimenti e messe a punto, facendo tesoro degli errori iniziali e apportando tutti quei miglioramenti pratici che solo l’esperienza può suggerire.

Tutto questo mi porta a dire che anche proposte molto modeste, come quelle che seguono, potranno risultare credibili, un domani che l’imprenditore dovesse dimostrare di aver messo in atto l’ “assetto organizzativo” richiesto dalla Legge.

Soprattutto se a queste prime misure faranno seguito altre, più elaborate, che probabilmente saranno introdotte ricorrendo ad un consulente esterno.

A quel punto, però, il nostro imprenditore potrà ascoltare il suo nuovo consulente, conoscendo già, in parte, di cosa si sta parlando.

 

Continua. Domani la sesta parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare?(4)

TRE SUGGERIMENTI MINIMI, PER CHI NON HA TEMPO NÉ DENARO

In questa ottica, suggerisco tre scelte MINIME, che permetteranno a chi non ha denaro e tempo a sufficienza, di iniziare ad adeguarsi alla Legge e al contempo avere comunque qualche beneficio in termini di controllo della gestione.

In ordine di facilità di implementazione le tre scelte sono:

  • rivedere e modificare il piano dei conti;
  • adottare un “budget” finanziario di base, su un singolo figlio Excel;
  • rivedere la gestione del magazzino.

Continua. Domani la quinta parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare?(3)

FARE, MA ANCHE DIMOSTRARE DI AVER FATTO

Accantonando un attimo il tema del controllo di gestione, io vedo – tra i gestori di imprese fallite – persone che AVEVANO PROBABILMENTE TENUTO la contabilità generale, ma che non si sono curate di consegnarla al Curatore, o che l’hanno consegnata in uno stato così disordinato che essa diventava inutilizzabile.

Queste persone si vedono a volte contestare la bancarotta semplice (quando non addirittura la bancarotta fraudolenta documentale), e solo per aver provato a risparmiare pochi spiccioli di cancelleria, oppure per essersi abbandonate a quella depressione che assale tanti imprenditori, quando vedono finire in malo modo la propria attività.

L’imprenditore deve tener presente la differenza tra FARE (per esempio tenere la contabilità) e DIMOSTRARE DI AVER FATTO (per esempio consegnarla in modo compiuto al Curatore).

Accanto a chi ha fatto e non riesce a dimostrarlo, a volte ho anche incontrato chi NON ha fatto, ma si è precostituito documentazione formale che sembra dimostrare che si sia fatto. Nel campo della sicurezza sul lavoro, per esempio, questo succede in più di un caso.

Continua. Domani la quarta parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare?(2)

COME FUNZIONA?

Il nuovo articolo 2086 del Codice Civile impone di “… istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale“.

Per ottenere questo, occorre adottare (a mio avviso):

  • una “contabilità dei costi”, che permetta di capire in tempi immediati la redditività di ciascun prodotto e servizio;
  • un sistema di “controllo di gestione” costituito da un bilancio preventivo a livello mensile o trimestrale (“budget”), da utilizzare come metro di misura dei risultati effettivi via via ottenuti durante l’anno.

Si tratta di procedure complicate, che non possono essere improvvisate e che richiedono competenza trasversali – a cavallo tra quelle dell’ingegnere e quella del commercialista “aziendalista”.

Non per nulla, in questo settore il mercato della consulenza è distribuito tra figure diverse. Oltre agli ingegneri e ai commercialisti (oggi in rimonta, soprattutto i giovani), ci sono anche persone senza qualifiche formali, ma che semplicemente hanno imparato il mestiere sul campo, magari lavorando come dipendenti di qualche impresa di grandi dimensioni e ben organizzata. La conoscenza del settore merceologico è importante.

Molte imprese, anche medio-piccole, già adottano la contabilità dei costi e il controllo di gestione – che sono in primo luogo uno strumento per guidare l’azienda, e non solo un obbligo di legge.

Chi ancora non l’adotta, però, sicuramente in questo momento è conteso tra la pressione ad adeguarsi ed il costo – non certo indifferente – di impiantare una nuova procedura e una nuova contabilità.

Anche se non sono un esperto di controllo di gestione, ho due suggerimenti per questi imprenditori:

  • fare comunque qualcosa, anche minimo, è meglio che non fare nulla;
  • prepararsi a dimostrare, un domani, di aver fatto qualcosa.

Continua. Domani la terza parte.

Controllo di gestione obbligatorio: che fare?(1)

NUOVE REGOLE

Controllo di gestione: dal 16 marzo 2019 è diventato OBBLIGATORIO, per le società commerciali, organizzarsi in modo da rilevare tempestivamente l’eventuale situazione di crisi e – ancor più – la “perdita della continuità aziendale“.

L’obbligo è previsto in un nuovo comma, che si è aggiunto in coda all’art. 2086 del Codice Civile.

Gli amministratori che non si adeguano, diventano personalmente responsabili per i danni che causano ai creditori della società. Finora, invece, questa responsabilità di fatto scattava solo in caso di colpa (“mala gestio”), oltre che, ovviamente, in caso di dolo.

C’era sì il dovere degli amministratori di cessare l’attività quando il patrimonio era perso, ma era difficile dimostrare QUANDO ciò era accaduto. Con l’obbligo di controllo di gestione, invece, diventa ora più facile inchiodare gli amministratori alle loro responsabilità. Tanto più che dal 16 marzo 2019, i criteri per calcolare il danno risarcibile vengono inseriti direttamente nel Codice Civile (con un nuovo comma aggiunto all’art. 2486).

Senza contare che dal 15 agosto 2020, l’Agenzia delle Entrate e l’Inps dovranno segnalare quelle imprese che non versano regolarmente quanto dovuto.

Quest’ultima è la novità più dirompente di tutte. Se la norma non verrà cambiata (sembra che ADE e Inps non la gradiscano), per gli imprenditori diventerà pressoché impossibile nascondere l’insolvenza.

L’obbligo di segnalazione, da parte di Agenzia delle Entrate e Inps, è il vero “bastone” della nuova Legge (Codice della Crisi e dell’Insolvenza), studiato per evitare la situazione di oggi, quando gli imprenditori continuano a rinviare nel tempo il riconoscimento della propria crisi e così facendo amplificano i danni alle tasche altrui e alla buona fede del mondo degli affari.

La “carota” sarà invece l’abolizione della parola “fallimento” (che oggi marchia d’infamia gli amministratori delle società fallite) e soprattutto l’abbandono della dissoluzione dell’impresa come esito della crisi di fatto imposto dalla Legge.

Se la malattia dell’azienda verrà presa in tempo (ha ragionato il Legislatore) diventerà possibile continuare l’attività, dopo una ristrutturazione che non escluderà più, a priori, il vecchio “imprenditore”.

La parola “fallimento” sta per andare in pensione, ma la parola “Curatore” non sarà più il sinonimo di “becchino” ma – appunto – quella di uno che cura il paziente per mantenerlo in vita.

E il modello americano del “Chapter 11”. Sarà interessante vedere il funzionamento pratico della sua versione italiana.

Continua. Domani la seconda parte.

Omessi versamenti e rischio bancarotta

Oggi sono molte, le imprese in crisi di liquidità, che cercano di sopravvivere ritardano quei (pochi) pagamenti ai fornitori che non bloccano l’attività e (soprattutto) ritardando i versamenti fiscali e previdenziali.

La pressione fiscale è così alta, che rinviare i versamenti di Iva, Inps, ritenute Irpef sui dipendenti può arrivare di DIMEZZARE gli esborsi monetari di un’impresa che abbia dipendenti.

Ci sono settori (per esempio le lavorazioni conti terzi, oppure le pulizie industriali) in cui il debito Iva è il 22% del fatturato (perchè c’è pochissima iva a credito) e le ritenute Irpef e Inps sono il 50% dei costi (perchè l’impresa vende – di fatto – solo lavoro).

In questi settori, decidere di non versare permette di praticare prezzi “sottocosto”, fino alla metà rispetto alla concorrenza. A quel punto, i clienti arrivano a frotte, senza bisogno di andarli a cercare.

IL DURC

E’ vero che, senza il Durc, dopo un pò i clienti non pagano più, ma la liquidà immediata che si crea può essere così elevata che anche giocando sul “dopo un po’” si portano a casa quattrini. Per chi lo fa di mestiere e conosce tutti i meccanismi che permettono di rateizzare il debito, il “dopo un po’” può durare anni.

Prima o poi, il fallimento arriva, ma quando arriva non è detto che emergano nè il falso in bilancio (basta iscrivere a bilancio tutti i debiti: queste imprese non hanno bisogno di credito bancario), nè la bancarotta fraudolenta per distrazione (la liquidità può essere prelevata in modo formalmente corretto, tipo compensi amministratori a CdA con elevato numero di amministratori, o società di servizi a latere, che fatturano all’impresa che non versa i contributi e le imposte). Nella mia esperienza, ha visto capolavori di questo tipo, soprattutto da parte di cooperative – dove la responsabilità è più “condivisa” e diluita e dove la (apparente) finalità sociale aiuta ad essere trattati con più indulgenza.

Queste che non versano, sono aziende DIVERSE da chi fa i “caroselli Iva”. Questa sono aziende vere, che hanno una storia magari dignitosa alle spalle, ma che decidono che – piuttosto di fallire oggi – possono ancora tirare avanti per 3-5 anni, dando da mangiare (a spese dell’Erario) a un po’ di famiglie.

[Su come funzionano i “caroselli Iva”, incidentalmente, trovate due miei lunghi articoli (tra le pubblicazioni) sul mio sito, riservati a chi chiede la password].

L’articolo Eutekne

Nell’articolo di Eutekne che qui richiamo è scritto che sul piano penale, questi comportamenti possono essere puniti per “operazione dolosa” (art. 223, comma 2 n. 2 dell’attuale Legge Fallimentare). Anche nel nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza (che già è legge, ma che entrerà in vigore nel 2020) per ora vi è la conferma degli attuali reati fallimentari.

Il giornalista di Eutekne sembra intravedere – nella sentenza di Cassazione – una possibile ingiustizia, perchè l’unica vera colpa del condannato potrebbe essere quella di … aver finito i soldi!

Il rischio c’è.

Oggi praticamente TUTTE le imprese che vengono dichiarate fallite hanno omesso dei versamenti fiscali e previdenziali. Il problema è di distinguere tra chi non ha più versato solo negli ultimi mesi, per disperazione, e chi invece (pur destinato comunque a fallire) ha pianificato scientificamente l’omissione. E’ ovvio che la seconda categorie di persone cerca di mimetizzarsi nella massa della prima.

L’esperienza personale

Nella mia esperienza personale, ci sono sia dei casi (numerosi) di bancarottieri che la fanno franca fingendosi vittime incolpevoli di crisi di liquidità, sia dei casi (meno numerosi) di poveri cristi che finiscono magari di patteggiare l’operazione dolosa. Sempre che possano patteggiare: per un imprenditore avere qualche reato alle spalle è frequente come per un automobilista aver causato un incidende con colpa.

In teoria, la fattura elettronica e il nuovo Codice della Crisi e dell’Insolvenza dovrebbero ridurre entrambi i fenomeni.

In teoria.

Per ora, il Codice della Crisi e dell’Insolvenza (con relativa segnalazione di chi non versa, da parte di Inps e Agenzia delle Entrate) non è ancora entrato in vigore. E la fattura elettronica sta solo causando problemi a commercialisti e imprese.

Eutekna-Omessi versamenti non punibili L’articolo Eutekne